lunedì 8 aprile 2013

PSICOLOGIA EVOLUTIVA II Parte


Il bambino dalla nascita ai tre anni




I primi tre anni di vita sono il periodo più “denso” e importante dell’intera vita: si apprendono molte cose (mangiare cibi solidi, camminare, parlare, controllare gli sfinteri…) , si elaborano stati emotivi e  si gettano le basi della personalità adulta,  con un’intensità che non è pari ad alcuna altra  fase della vita degli umani. Questa considerazione basta da sola a motivare l’enorme rispetto e delicatezza con cui è indispensabile accostarsi a un neonato. Al momento della nascita, mentre gli altri organi fondamentali (cuore, reni, polmoni …) sono sostanzialmente simili a quelli dell’adulto,  il cervello e il sistema nervoso in generale, non è  completo: la corteccia cerebrale (cioè la materia grigia che avvolge il mesencefalo e che presiede alle funzioni di movimento, pensiero complesso e linguaggio) presenta una scarsa connessione tra le sue cellule, e entro i due anni di vita arriverà al 75% del suo sviluppo. Un secondo processo importante è la mielinizzazione , cioè lo sviluppo della guaina che ricopre il midollo spinale e che presiede alle funzioni di controllo della parte inferiore del corpo. Anche questa funzione sarà quasi completamente funzionante intorno ai due anni. Da queste informazioni si deduce cosa il neonato non sa fare (non parla, non cammina, non ragiona in senso logico e soprattutto non distingue la madre e il padre dagli estranei). Ma, ci colpiscono anche le sue capacità, che sono poi quelle che gli saranno indispensabili per la sopravvivenza: sente i suoni e le voci, vede gli oggetti posti a circa 20 cm. dal suo viso (può fissare la madre mentre lo allatta), piange quando ha bisogno di accudimento, e rinforza costantemente i genitori quando lo prendono in braccio, acquietandosi se lo cullano e imparando presto a sorridere; sa agire a turno quando viene nutrito…  Tutte queste tendenze innate aiutano il bambino a incentrare l’attenzione sulle persone che lo circondano, a farle avvicinare e a far sì che sviluppino attaccamento nei suoi confronti. Ovviamente questo non è un processo intenzionale o cosciente, ma è un sistema meravigliosamente integrato nel quale le capacità percettive e fisiche del neonato e la sua capacità di acquietarsi, contribuiscono tutte insieme ad agganciare i genitori alle cure e successivamente all’attaccamento reciproco.  Al momento della nascita, il bambino subisce un trauma notevole, passando da una condizione ideale in cui i suoi bisogni venivano soddisfatti automaticamente, senza che lui provasse alcun disagio  e senza dover chiedere niente (condizione a cui inconsciamente aneliamo per tutta la vita), a una situazione terrorizzante in cui sente il caldo e il freddo, il fastidio di essere sporco, prova i morsi della fame, senza sapere come porvi rimedio (senza neanche capire che non ne sarà annientato) e senza sapere che qualcuno  a lui vicino, lo aiuterà .
Il neonato fino a un attimo prima della nascita, era fisicamente tutt’uno con la sua fonte di sopravvivenza, cioè la madre, e ha inizialmente difficoltà a comprendere di esserne stato separato al momento del parto. Solo la ripetizione dell’evento in cui si sente correttamente accudito (e una madre o figura sostitutiva, sufficientemente in ascolto imparerà a sua volta a farlo), gli permetterà di non essere sopraffatto dall’aspetto emotivo  del disagio vissuto e di elaborare correttamente le complesse informazioni che gli giungono dall’interno e dall’esterno, così da accrescere il bagaglio di esperienze, maturare, imparare a chiedere e aspettare (teoria dell’apprendimento di J.Piaget e stadi evolutivi 0/2 anni stadio senso-motorio,2/ 7 anni intelligenza intuitiva, 7/12 operazioni concrete, 12/18 intelligenza astratta). 
Lo strumento del pianto è inizialmente l’unico in mano al neonato per comunicare. Il bambino ci dice sempre qualcosa quando piange e dalla capacità e allenamento all’ascolto , che la/le persona/e che si occupa del bambino può affinare l’efficacia dei suoi interventi di cura.
Nei primi tre o quattro mesi di vita il bambino dirige i suoi comportamenti di attaccamento in modo abbastanza indifferenziato, (già dal secondo mese il neonato tende a rispondere al sorriso e incrocia lo sguardo di chi lo tiene in braccio), mentre verso i sei /sette mesi si stabilisce un passaggio di demarcazione piuttosto netto: la progressiva comprensione della costanza dell’oggetto. Questo è un passaggio fondamentale dello sviluppo dell’Io, in cui il bambino sperimenta (importanza della possibilità di giocare)  che le cose e quindi le persone,  esistono anche quando sono fuori dal suo campo visivo. A questo punto evolutivo, infatti nella maggior parte dei casi il bambino sceglie una persona (in genere la md,  di cui comprende l’andare e il ritornare) come prevalente oggetto del suo attaccamento. E’ anche l’età in cui incomincia a gattonare e si può allontanare e tornare dalla sua base sicura (teoria di Bowlby). Queste due competenze acquisite, una di relazione e una motoria, daranno via a una serie di nuove interazioni per cui l’età di 8 mesi è particolarmente “critica”, nel senso attribuito a questo nella premessa. Tra i quattro e i dodici mesi è possibile che il bambino elegga un oggetto (coperta, peluche, indumento…) a sostituto consolatorio della figura di accudimento principale (Winnicott). A questa età, l’attaccamento del bambino verso una sola persona si manifesta con la massima intensità (attaccamento stabile e instabile – M. Ainsworth).
Verso i 18 mesi si verifica il passaggio tra la prima e la seconda infanzia. La crescita neurologica, le aree motorie e percettive si sviluppano quasi completamente, il bambino impara a camminare (tra i 12 e i 15 mesi) e il campo delle sue esperienze si allarga. In questa fase prendono forma concetti rudimentali, fanno la comparsa le prime parole e alcune frasi di due parole. Ancora l’attaccamento più forte è verso una sola persona,  in seguito si estenderà a più persone e il bambino utilizzerà quelle per lui più significative come base sicura per  le sue esplorazioni. La stabilità di queste prime forme di attaccamento  rivestirà  particolare importanza per il successivo sviluppo della personalità.                             
Tra i diciotto e i 36 mesi si verificano conquiste a livello linguistico e cognitivo che aprono il mondo del bambino verso possibilità e abilità del tutto nuove, ma ci vorranno ancora molti mesi perché queste competenze si consolidino. Intorno ai due anni, secondo Piaget, passato a un altro stadio di sviluppo,  il bambino usa le parole con crescente abilità e si cala in qualche misura, nella prospettiva altrui. Usa in abbondanza il termine “mio” (che in realtà significa “mi riguarda, è la mia sfera”), e cresce l’utilizzo del “no”, come inizio di manifestazione di distacco dalla madre e sviluppo dell’individualità.  Si allontana sempre più dalla “base sicura” e inizia l’interazione con i coetanei. E’ importante sottolineare alcune dimensioni fondamentali del gioco che fino a tre anni si può definire  parallelo (cioè i bambini giocano vicini ma non insieme), poi sempre più cooperativo (incominciano le vere relazioni di gioco). Il giocare svolge un ruolo importante  nella formazione psicologica del bambino e questa dimensione, sia pure mascherata, si ritroverà più tardi  nell’attività ludica dell’adolescente e dell’adulto. Le sue principali utilità evolutive si esplicano nella:
-         Funzione esplorativa. Tutti i giochi impegnano l’attenzione e la memoria, il giudizio e il raziocinio, estendono l’esperienza sulla realtà circostante, contribuendo ad approfondire la conoscenza empirica e indirettamente quella scientifica. Il bambino accrescendo la padronanza della realtà aumenta l’adattamento. Questa funzione è talmente importante che i bambini a cui l’ambiente non offre sufficienti stimoli in questo senso, rischiano di essere intellettualmente carenti.
-         Funzione catartica. In cui il bambino scarica e libera le tensioni interne, agevolando il proprio equilibrio emotivo. Attraverso questo tipo di attività, il bambino si mette in una posizione attiva e di dominio della realtà che invece, è spesso costretto a subire. Infatti sono numerose le frustrazioni che quotidianamente vive e che rischierebbero di schiacciarlo se non fossero in qualche modo elaborate. Inventando situazioni di ruoli rovesciati, il bambino sfugge alle imposizioni che gli vengono dal mondo adulto, riuscendo a scaricare l’aggressività a accumulata e senza danneggiare le relazioni con gli altri.
-         Funzione di simulazione dei ruoli e delle regole in il bambino conduce un suo particolare tirocinio in cui si allena al comportamento di figlio, di genitore, di maschio, di femmina, di dottore, di cantante, di maestra… Più tardi attraverso il gioco con regole, darà prova di sapersi conformare alle richieste dall’ambiente in cui vive, procedendo sulla strada della maturazione del senso sociale e morale.
Verso i 4/5 anni, si sviluppa in modo specifico il concetto di sé e dell’identità sessuale. Il concetto di sé comprende un Io esistenziale (sono un’entità separata dagli altri) che inizia a svilupparsi dal momento della nascita,  un Io categorico (possiedo caratteristiche specifiche di sesso, nazionalità, opinioni, già definito a questa età) e l’autostima (giudico positivamente o negativamente queste mie caratteristiche). Ora il bambino ha più consapevolezza  dell’ esistenza di un “Io” , entità fisica continua e definita, come momento  fondamentale del processo di apprendimento. Nella teoria Freudiana l’Io è la parte della personalità che organizza, pianifica e mantiene il contatto tra individuo e realtà. Il linguaggio e il pensiero sono entrambi funzioni dell’Io, che in questo periodo si consolidano e con cui il bambino si cimenta in abilità e relazioni più complesse. Ascoltando e immagazzinando i rinforzi dell’ambiente sulla sua identità di genere e sulle sue capacità e suoi limiti, giunge a un primo abbozzo di conclusioni e riflessioni su sé stesso, dando un apporto concreto al concetto di sé in formazione.  Anche l’aspetto morale assume importanza e inizia la conquista dell’autocontrollo e del senso di responsabilità. Il ruolo del  padre esce sempre più dalla sfondo e si consolida la triade madre/padre/bambino, in cui la figura  maschile insegna le regole e sottolinea i divieti. E’ anche una fase di “sfida” in cui il bambino costruisce l’autostima e si confronta  iniziando a uscire dalla famiglia (scuola materna e allargamento di relazioni, nascita delle prime vere amicizie). A questa età i bambini manifestano disagio attraverso la difficoltà ad addormentarsi e con il comunicare specifiche paure (aggressività dei compagni e propria, streghe e mostri).
La successiva transizione particolarmente significativa si situa intorno ai 6 anni, età in cui pressoché in tutte le culture il bambino inizia il suo percorso nella scuola primaria e quindi c’è da parte degli adulti, un riconoscimento implicito del suo essere pronto per tale passaggio. Il bambino inizia anche a cimentarsi con competenze cognitive in modo più sistematico (operazioni matematiche, sforzi di memoria, leggere, scrivere….) e relazionali (passa molte ore fuori casa, deve seguire altre regole, conosce tutti insieme molti coetanei…) tutte esperienze particolarmente ricche ma anche fonti di possibile stress. Questa è  anche l’età in cui i bambini acquisiscono la certezza dell’irreversibilità de genere sessuale a cui appartengono, che non dipende, come hanno creduto da più piccoli,  dall’abito o dalla foggia dei capelli , ma da qualcosa biologicamente definito e socialmente rinforzato.
 Durante le scuole elementari, fino a 11 anni circa,  il bambino consolida lo sviluppo cognitivo passando dalle operazioni concrete all’uso pieno della logica induttiva. In questo periodo si affermano anche i  ruoli e gli stili di gioco, si struttura la tendenza al  comando il grado di socialità e popolarità tra i compagni. Intorno ai 7 anni, compare in modo a volte anche particolarmente pressante, la  paura della morte, propria o dei familiari, che diventa un concetto importante con cui confrontarsi e interrogarsi. In questa fase definita da Freud “latenza”, sembra che gli interessi sessuali siano sopiti, in generale, è un periodo di quiete ma non di vuoto in cui prosegue e si consolida l’apprendimento  e  i cambiamenti sono meno evidenti dei periodi precedenti e successivi, ma non meno significativi.


Centro di Psicoterapia Familiare

Fonte: fofamiglia.it

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