sabato 24 novembre 2012

PSICOLOGIA DELLO SPORT: Approfondimento

Il blocco mentale e la paura di vincere




Nel contesto sportivo la paura si esprime generalmente attraverso l’ansia. L’ansia di  non mostrare le proprie capacità, l’ansia di farsi male, l’ansia del non deludere l’Altro significativo (ossia la figura di riferimento), l’ansia di non raggiungere l’obiettivo previsto. È quindi intesa prevalentemente come paura di perdere, ma esiste un altro fenomeno legato all’ansia dell’atleta, più complesso, che prende il nome di Nikefobia, terminologia greca composta da "nike" vittoria e "phobia" ovvero paura.
Se la paura di perdere è socialmente accettata e comprensibile, la paura di vincere resta indecifrabile a causa della sua irrazionalità. Come è possibile che esista la paura di vincere?
Per lo sportivo, amatore quanto più per l’agonista, questa fobia segnala la presenza di conflitti psicologici di molteplice natura. In primis potrebbe rappresentare il timore dell’atleta di infrangere alcune gerarchie consolidate che, fino a quel momento, lo hanno deresponsabilizzato e tenuto nell’ombra. Eccellere rispetto ad un compagno notoriamente più formato in termini di esperienza potrebbe portare l’atleta ad attribuirsi un ruolo per il quale, inconsapevolmente, non si sente pronto. Ecco che l’anonimato di posizioni intermedie diventa psicologicamente un obiettivo funzionale al suo scopo.
Grande importanza ha anche il livello di autostima sperimentato dal soggetto stesso che rinvia la sua grande performance, nonostante i tecnici e l’allenatore lo ritengano pronto, per non assumersi poi la responsabilità del proprio talento. Ciò comporta l’analisi di un’altra prospettiva che riguarda l’impegno nel dover mantenere uno standard di prestazione, ove ci sia un apice raggiunto, che sia adeguato e soddisfacente agli occhi di figure significative quali l’allenatore, la famiglia, il pubblico e la critica, oltre che nei confronti di se stesso ovviamente.
Nel calcio, la Nikefobia può rappresentare uno squilibrio tra la volontà di raggiungere l’obiettivo finale e la reale capacità di far emergere le qualità dei singoli giocatori, che si traduce in una prestazione non all’altezza delle esigenze. Il giocatore si è allenato duramente, ma si trova di fronte a questo inspiegabile meccanismo mentale che non gli fa superare il suo limite e lo priva delle energie per raggiungere il traguardo. Questo fenomeno è da valutarsi soprattutto quando la competizione è con avversari dello stesso livello di preparazione tecnica, e l’atleta, che sa di poter compiere l’azione che risolverebbe a proprio favore l’intero match, si blocca ripetutamente ad ogni occasione di svolta, innescando una serie di insuccessi che lo fanno dubitare di se stesso e delle proprie capacità. Con il ripetersi di questo copione il giocatore rischia di intaccare inesorabilmente la propria autostima e l’unico modo per spezzare questa catena di errori sta nell’affrontarli nel loro significato più profondo.
Come può, tuttavia, un fenomeno individuale, condizionare la sorte di una squadra intera?
Quando una squadra di calcio accumula una serie di sconfitte consecutive, nella concezione comune si considera la spirale di insuccessi raccolti come effetto di una “paura di vincere” collettiva. Ciò appare riduttivo in quanto nel campo da gioco non c’è solo un giocatore contro il suo avversario a determinare l’esito della gara, ma sono da considerare anche molti altri fattori che incidono sull’atteggiamento mentale di tutta la squadra. Infatti, le pressioni esterne quali ad esempio le critiche, più o meno costruttive, dei mezzi di informazione, il giudizio dello staff tecnico e societario e le aspettative della tifoseria incidono sullo stato mentale collettivo che condiziona la prestazione agonistica.
I molteplici fattori esterni uniti alla presenza della paura di vincere in uno o più giocatori, se non riconosciuti ed affrontati, possono innescare negatività ripetute, intese come risultati fallimentari, che influiscono sull'autostima del gruppo determinando uno status collettivo di demoralizzazione che si protrae nel tempo (spirale della sconfitta).
Nikefobia e blocco mentale della squadra sono quindi due concetti diversi ma che spesso viaggiano parallelamente nel segnalare la difficoltà di esprimere al meglio una prestazione sportiva.

dott.ssa Ivana Siena



lunedì 12 novembre 2012

SPAZIO LETTURA



ANTROPOLOGIA DELL’AMORE
Eros e culture, Dino Burtini


Il mistero dell'attrazione appare insondabile, ma chi di voi non ha provato almeno una volta nella vita l’incanto dell’amore, l’innamoramento, la passione? Si tratta di un’esperienza così universalmente diffusa che sfugge a qualunque definizione: ”Amore, impossibile a definirsi!” direbbe Giacomo Casanova. Il testo affronta uno dei nodi essenziali della riflessione e dell’esperienza esistenziale dell’umanità, esso esplora il sentimento amoroso nei diversi contesti culturali analizzati personalmente dall’autore attraverso la ricerca sul campo e l’esame delle fonti.
L’amore è una chiave perfetta per cogliere i dati fondamentali di una cultura, perché esso interessa la sfera più profonda della personalità umana. Il lavoro è una descrizione attenta e intrigante dei comportamenti umani relativi alla vasta sfera dei modi di agire, individuali e sociali, legati all’amore (le feste della pubertà, i rituali dell’unione, il corteggiamento, l’adulterio, la sessualità, l’eros), sentimento che coinvolge sempre e inevitabilmente l’intera complessità dell’individuo, dal piano biologico a quello psichico, a quello intellettuale, a quello etico. Aspetti che vengono analizzati in chiave comparativa mettendo a confronto la realtà occidentale ed europea in particolare con quella dei popoli di interesse etno-antropologico. L’autore si muove alla ricerca delle modalità con cui l’amore si manifesta e soprattutto si ritualizza, nella mentalità (cioè nei valori) e nei comportamenti di altre culture, ricorda come amore e sessualità contengano emozioni e significati psicologici e antropologici che sono il prodotto, a volte conflittuale, di pulsioni naturali frammiste ad esperienze sociali, morali e religiose. L’amore e l’eros diventano veicolo di relazione e scambi comunicativi tra gli uomini.

Dino Burtini è psicologo e antropologo, insegna Sociologia dei processi culturali e Antropologia interculturale presso l’Università di Chieti-Pescara. Formatore e teatroterapeuta, dirige un Istituto di Alta Formazione e una Scuola di Specializzazione in Psicoterapia. Nel corso del suo lavoro di ricerca, ha incontrato l’eccezionale magistero di Cecilia Gatto Trocchi (alla quale il testo è dedicato) che gli ha trasmesso la passione, oltre che gli strumenti metodologici, degli studi antropologici che lei stessa aveva saputo apprendere alla scuola di Claude Lévi-Strauss. Durante la sua esperienza di studioso e nell’ambito dei suoi interessi psico-antropologici, ha svolto indagini sul campo in Europa, Africa, India, Centro e Sud America, poi raccolte in diverse e fortunate pubblicazioni. Per i tipi della Bulzoni ha già pubblicato ”In principio Dio creò i Masai”.
I diritti d'autore saranno devoluti al recupero del patrimonio storico e culturale della città dell'Aquila.



lunedì 5 novembre 2012

C'E' CRISI



Il concetto di crisi fa riferimento ad un punto decisivo di cambiamento. In campo psicologico si intende un momento di sofferenza, di destabilizzazione rispetto all’equilibrio precedentemente acquisito, che rappresenta un punto di svolta decisivo e può evolversi in un miglioramento o in un peggioramento.
Paul Claude Racamier (1985, p. 16) a questo proposito scrive “La nozione di crisi si pone tra il registro della normalità e della patologia: attraversa nello stesso tempo il normale ed il patologico ed il suo interesse sta nel fatto che si pone a cavallo tra questi due registri”.
L’accezione positiva del termine vede la crisi come un momento cruciale del percorso evolutivo dell’essere umano o di un sistema, che a partire da un “pericolo” può mettere in campo le proprie risorse verso una nuova opportunità di cambiamento.
La crisi si materializza laddove un certo pensiero, capacità di gestire le proprie emozioni e modalità relazionale, diventano insufficienti a soddisfare le aspettative fino a quel momento funzionali al benessere della vita quotidiana. Ci sia avvia verso una trasformazione, vissuta come estranea però, pericolosa perché protratta verso l’ignoto, in direzione di un modello di vita mai sperimentato, ma inconsapevolmente ricercato.
 Tale cambiamento fa paura pertanto la reazione più consona e prevedibile, spesso è rappresentata da un maggiore attaccamento ai vecchi modelli comportamentali che forniscono un’apparente sicurezza, ma che contemporaneamente confermano la sofferenza e la necessità di un rinnovamento.  

La manifestazione di questo malessere non riconosciuto si esplica in molte tipologie di comportamento, dalle continue liti familiari ed extrafamiliari, disadattamento in campo lavorativo, uso e abuso di sostanze, crisi coniugali, senza contare gli stati d’animo associati a questi momenti che rischiano una cronicizzazione se non governati adeguatamente.
In questa visione, in cui la crisi è considerata come un ostacolo alla crescita dell’individuo, il riconoscimento ed il potenziamento delle proprie risorse personali e la volontà di “sporcarsi le mani” mettendosi in gioco, rappresentano la condizione maggiormente auspicabile per il superamento dei propri limiti e per l’utilizzo di questi momenti di empasse come uno strumento funzionale al proprio Sé.
Questa spiegazione della crisi tenta di abbattere lo stereotipo della Psicologia come un intervento per estirpare i tratti patologici di un individuo o di un sistema. Infatti se l’obiettivo generale è far emergere le risorse interiori, sempre presenti ma spesso poco visibili, diventa chiaro che gli eventi critici non sono espressione di patologia, ma creazione di nuove forme di funzionamento. Il benessere auspicato è inteso quindi come capacità “reattiva”, rispetto a fattori che hanno in sé il potenziale di indurre malesserePertanto un percorso psicologico non ha l’obiettivo diretto ed irrazionale di porre in essere soluzioni immutabili e certe, ma di scortare l’individuo nella direzione consona al ritrovamento del suo benessere.
La definizione di paziente, ove non ci siano problematiche psichiatriche riconosciute,  può essere quindi sostituito dal termine ricercatore, collaboratore, mentre lo psicologo può essere investito della funzione di accompagnatore di questo percorso di ricerca del reale significato del malessere.
dott.ssa Ivana Siena