sabato 2 marzo 2013

DIVENTARE GENITORI


Da due a tre



La “transizione alla genitorialità” è quel processo complesso e delicato che porta una coppia a diventare coppia genitoriale.
La transizione, come sempre, porta con sé una crisi. Tale crisi non è necessariamente sinonimo di problema o addirittura di patologia ma è sinonimo di cambiamento e il cambiamento, quasi sempre, implica possibilità e rischi.
La nascita di un figlio comporta una serie di importanti modificazioni per la coppia:
- Le cure di cui un bambino piccolo necessita di norma richiedono tempi significativi che prima la coppia dedicava a se stessa e al proprio tempo libero. Il tempo per stare insieme, divertirsi, rilassarsi, dopo l’arrivo di un figlio si riduce drasticamente.
- Prima della nascita di un figlio la coppia ha come unica responsabilità il sostentamento, il mantenimento e la sopravvivenza di sé stessa. Con la nascita di un figlio il carico di responsabilità sulle spalle dei genitori aumenta notevolmente e con esso possono aumentare anche la paura di non farcela a sostenere tale carico e la sensazione di “perdita di libertà”.
- Con il diffondersi della famiglia nucleare a scapito di quella patriarcale, per ovvie ragioni legate a dinamiche socioeconomiche e alla mobilità territoriale delle giovani coppie che vivono lontano dalla famiglia d’origine, la coppia genitoriale si trova a dover affrontare le sue nuove importanti responsabilità praticamente da sola. Le strutture di supporto sul territorio sono spesso assenti o hanno costi che le rendono poco accessibili. Le reti sociali e amicali, specie fuori dai piccoli centri e nelle grandi città, sono spesso lasse o incompatibili con le distanze. Questo isolamento rende tutto molto più difficile e i momenti di scoraggiamento per la coppia di neogenitori possono essere decisamente più frequenti.
- Il post partum è un momento estremamente difficile per la mamma. Di norma compaiono malinconia e una certa tristezza e questo essenzialmente per ragioni sia psicologiche che biologiche. L’accudimento di un figlio può rappresentare per una donna un compito umano troppo difficile verso il quale si sente completamente sguarnita. E’ più che normale sentirsi impreparati e preoccupati ad affrontare tale compito ma spesso tale preoccupazione determina una sorta di “paralisi” ad agire, ad occuparsi del proprio bambino, a curarlo e coccolarlo e un sentimento di dolorosa inadeguatezza. Ciò che ne deriva è uno stato di tristezza profonda che spesso sfocia in una vera e propria depressione. Dal punto di vista biologico, nel post partum il livello di estrogeni nel sangue si riduce drasticamente determinando un fisiologico calo del tono dell’umore che quasi sempre si accompagna anche ad un calo del desiderio sessuale. La vita della coppia evidentemente risente di tutto ciò in maniera molto significativa.
- Con l’arrivo di un figlio, l’attenzione delle mamme viene catalizzata quasi interamente dal bambino e dal suo accudimento e questo, spesso, fa si che i papà si sentano trascurati ed estromessi dal rapporto privilegiato tra madre e bambino. Sempre più spesso, però, accade di assistere all’esatto contrario, ovvero papà che diventano un tutt’uno con il loro nuovo ruolo di genitori e mamme che soffrono perché si sentono trascurate e messe da parte.
Come fare per far sì che questo delicato passaggio di vita possa costituire per la coppia un momento in cui ritrovarsi anziché perdersi?

Non è un compito semplice. Non lo è in quanto ciò che è realmente determinante in questo processo è l’equilibrio che la coppia aveva stabilito prima della nascita di un figlio. E’ evidente che una coppia che funzionava in maniera problematica già prima del lieto evento rischia molto più di una coppia che, invece, aveva conquistato un buon funzionamento complessivo.
Le crisi problematiche, la sofferenza che non passa vanno affrontate con l’aiuto di professionisti con una preparazione psicoterapeutica. Certamente, però, alcuni consigli pratici possono aiutare a contrastare l’insorgere di problemi durante questo delicato momento di transizione.
Sforzarsi di trovare del tempo per la coppia
Può sembrare impossibile farlo quando in due, oltre a lavorare, ci si deve occupare di un neonato ma è di fondamentale importanza che la coppia si ritagli uno spazio proprio nel quale il bambino non c’è o è sullo sfondo. La coppia dovrebbe vivere questo spazio come un appuntamento (quotidiano, settimanale ecc.) irrinunciabile da pianificare a tutti i costi.
Perdonarsi per le proprie paure
Avere paura di mettere al mondo un figlio e di accudirlo è la cosa più normale del mondo. Non c’è nulla di male o di patologico nell’avere paura, anzi, la paura ci serve per mettere in campo tutte le nostre risorse per svolgere al meglio i compiti difficili. Quando pensiamo di non farcela spesso stiamo sottostimando le nostre capacità e sovrastimando il pericolo. Pensiamo a tutte le volte che abbiamo avuto paura di qualcosa e poi ci siamo detti, dopo aver affrontato questo qualcosa, che forse non c’era da avere così tanta paura. Inoltre, sforziamoci di riflettere sul perché proprio noi non dovremmo farcela?
Chiedere aiuto
Quando il peso dei problemi e delle difficoltà quotidiane diventa insostenibile è bene allentare la tensione e lasciarsi aiutare. Chiedere aiuto non è sempre facile, a volte la coppia ha la sensazione di dovercela fare da sola a gestire un bambino e sente che chiedere aiuto rappresenti una sorta di piccolo fallimento. In altri casi la coppia può temere di essere di peso se chiede aiuto e così facendo si priva della possibilità di scoprire che a volte genitori, amici e parenti sono ben contenti di rendersi utili.
I genitori perfetti non esistono
E’ quello che ogni neogenitore dovrebbe ripetere a sé stesso tutte le volte che si sente inadeguato o teme di poter sbagliare con il proprio figlio. Sentirsi preoccupati e paralizzati dalla paura di sbagliare è normale, specie quando nostro figlio è appena nato ma questo non fa di noi genitori inadeguati o inetti. 
Centro di Psicoterapia Familiare


INSEGNAMENTO E BURNOUT


Il Burnout nell’insegnamento


L’insegnante oggi vive una dinamica di ruolo estremamente articolata perché parte di un sistema ricco di tensioni e mutamenti, quale quello della scuola.
I numerosi cambiamenti che investono il sistema istruzione uniti ai cambiamenti della popolazione studentesca pongono l’insegnante di fronte alla possibilità di sperimentare in continuazione l’esperienza dell’inefficacia del proprio intervento educativo.
Il fallimento rappresenta una costante minaccia nella percezione di sé e del sentimento di autostima personale e sociale; tale fenomeno è potenzialmente in grado di generare situazioni di distress professionale (disagio) che incidono sulla prestazione lavorativa e sull’equilibrio psicologico.
Le cause di maggior disagio professionale sono:
• La peculiarità della professione (relazione d’aiuto)
• Lo scarso riconoscimento sociale e istituzionale della professione
• Il numero elevato di studenti per classe
• La maggior partecipazione degli studenti alle decisioni e conseguente
livellamento dei ruoli con i docenti
• L’inadeguata retribuzione
• Le conflittualità tra colleghi (passaggio critico dall’individualismo al
lavoro d’equipe)
• Il rapporto con i genitori e con gli studenti
• L’evoluzione scientifica (avvento dell’era informatica e delle nuove tecnologie
di comunicazione elettronica)
• Il susseguirsi continuo di riforme
Gli insegnanti, che esercitano appieno una professione riconosciuta come
relazione di aiuto (helping profession), sono maggiormente a rischio di sviluppare la sindrome del burnout, a causa dello stress cronico e prolungato.
Il Burnout è “un processo nel quale un professionista precedentemente impegnato, si disimpegna dal proprio lavoro in risposta allo stress e alla tensione sperimentata”.
Secondo Maslach, una delle maggiori studiose del fenomeno in questione, il nucleo della sindrome del burnout è uno schema di sovraccarico emozionale seguito da esaurimento emozionale.
Autorevoli studi hanno accertato che tale affezione rappresenta un fenomeno di portata internazionale, che ricorre frequentemente tra gli insegnanti. Secondo Maslach e Jackson, una o più condizioni stressogene, se particolarmente intense o protratte nel tempo, possono indurre l’insorgenza di tale sindrome.
Secondo il modello di Maslach, che a tutto’oggi è quello maggiormente condiviso, la sindrome del burnout si caratterizza con:
• particolari stati d’animo (quali ansia, irritabilità, esaurimento fisico,
panico, agitazione, senso di colpa, negativismo, ridotte autostima, empatia
e capacità d’ascolto, ecc.),
• somatizzazioni (emicrania, sudorazioni, insonnia, disturbi gastrointestinali, parestesie, ecc.)
• reazioni comportamentali (assenze o ritardi frequenti sul posto di lavoro, chiusura difensiva al dialogo, distacco emotivo dall’interlocutore, ridotta creatività, ricorso a comportamenti stereotipati).
Il repertorio comportamentale che viene descritto da questo modello si declina attraverso vissuti di:
1. Esaurimento emotivo: la sensazione di essere in continua tensione, emotivamente inariditi dal rapporto con gli altri. Essa si caratterizza per la mancanza dell’energia necessaria per affrontare la realtà quotidiana e per la prevalenza di sentimenti di apatia e distacco emotivo, nei confronti del lavoro. Il soggetto si sente svuotato, sfinito, le sue risorse emozionali sono esaurite. Le conseguenze dell’esaurimento emotivo possono essere sia fisiche (insonnia o disturbi nel sonno, emicrania, problemi gastrointestinali) che interpersonali (stanchezza, affaticamento, vuoto mentale, sensazione di fallimento, ansia, depressione, rabbia, scoraggiamento, tendenza all’isolamento e al ritiro.
2. Depersonalizzazione: la risposta negativa nei confronti delle persone che ricevono la prestazione professionale. Viene rappresentata da un atteggiamento caratterizzato da distacco e ostilità che coinvolgono primariamente la relazione professionale, vissuta con fastidio, freddezza e cinismo. La persona tenta di sottrarsi al coinvolgimento, limitando la quantità e la qualità dei propri interventi professionali al punto da rispondere evasivamente alle richieste e sottovalutare o negare i problemi dell’utente. Crollate le aspettative, cadono anche le convinzioni personali riguardo alle proprie capacità ed alle proprie competenze: “non sono capace di fare il mio lavoro!”, “non valgo niente!”.
Le conseguenze della depersonalizzazione possono essere lavorative (bassa produttività lavorativa con sensazione di mancata realizzazione dei propri obiettivi, assenteismo, rigidità e resistenza al cambiamento, ripetitività passiva e acritica del proprio lavoro) e interpersonali (cinismo, aggressività, sospettosità, incapacità d’ascolto e relazione d’aiuto).
3. Ridotta realizzazione professionale: la sensazione che nel lavoro a contatto con gli altri la propria competenza e il proprio desiderio di successo stiano venendo meno. Il soggetto si sente perennemente fallito da un punto di vista professionale e inadeguato per il tipo di lavoro svolto. Tale stato è inoltre aggravato dalla consapevolezza del disinteresse e dell’intolleranza verso gli altri. Ciò comporta pesanti sensi di colpa per le modalità relazionali impersonali e disumanizzate che si è, in qualche modo, costretti ad utilizzare nella relazione con altri. Mentre in passato il lavoratore trovava nel lavoro stimoli e caratteristiche che, se pur in vario modo, rispondevano alle attese personali e alle motivazioni di scelta del lavoro, successivamente prevale la routine, la monotonia e tutto diventa più pesante e gravoso.
Le conseguenze della ridotta realizzazione professionale intaccano il complesso di sensazioni relative alla propria competenza e abilità professionale. Ne risente, senz’altro, anche il desiderio ed il piacere di lavorare con gli altri, condividendo le esperienze acquisite.
La sindrome del burnout può essere riconosciuta attraverso la presenza di
quattro elementi principali:
1. Affaticamento fisico ed emotivo (emotional exhaustion and fatigue);
2. Atteggiamento distaccato e apatico nei confronti di studenti, colleghi e neirapporti interpersonali (depersonalisation and cynical attitude);
3. Sentimento di frustrazione dovuto alla mancata realizzazione delle proprie aspettative (lack of personal accomplishment);
4. Perdita della capacità del controllo, smarrimento cioè di quel senso critico che consente di attribuire all’esperienza lavorativa la dimensione giusta. La professione finisce per assumere un’importanza smisurata nell’ambito della vita di relazione e l’individuo non riesce a “staccare” mentalmente tendendo a lasciarsi andare anche a reazioni emotive, impulsive e violente.
In altri termini psicologici individuali e interpersonali, nella sindrome del
burnout si instaura una situazione conflittuale tra il modello ideale che ciascuno ha del suo lavoro (come è stato desiderato e quindi scelto), tra il ruolo lavorativo così com’è e quello effettivamente svolto e il ruolo burocratico (così com’è imposto dalla istituzione).
La conseguenza è che si “spersonalizza” il rapporto con l’utente e si riduce la motivazione ad intraprendere azioni finalizzate alla soluzione di problemi, impedendo l’elaborazione di azioni creative e originali.
Ciò implica dei rischi per la salute mentale dell’individuo, che vive il rapporto con l’istituzione attraverso emozioni di rabbia, senso di impotenza, depressione, ansia e tutto questo determina disistima, richiami, censure e, nei casi più gravi, provvedimenti disciplinari).

A fare fronte a questi sintomi e a queste percezioni spiacevoli in grado di condizionare pesantemente il tono dell’umore e la qualità della vita dell’individuo nel suo contesto, intervengono le cosiddette Strategie di Coping (Coping Strategies).
In uno studio effettuato nel Regno Unito su 2.638 direttori scolastici viene suggerita una classificazione delle strategie di coping messe in atto:
Azioni dirette (direct), miranti cioè ad affrontare positivamente la situazione
Diversive (diversionary), cioè tese a schivare l’evento assumendo un atteggiamento
apatico, impersonale, distaccato nei confronti di terzi
Di fuga (withdrawal) o abbandono dell’attività, per sottrarsi alla situazione
stressogena
Palliative (palliative) cioè incentrate sul ricorso a sostanze come caffè, fumo, alcool, farmaci.
Intervento psicologico
Da molti anni l’interesse della psicologia al mondo della scuola è in aumento, anche se lo psicologo non è una figura istituzionalizzata e riconosciuta nelle scuole di ogni ordine e grado.
Negli ultimi anni, accanto ai temi finora trattati dalla psicologia, è emersa la necessità di considerare lo stress professionale del corpo docente e la sindrome del burnout, come oggetto d’interesse.
La psicologia scolastica è una disciplina che si occupa di produrre salute e mira al benessere del docente, inteso anche come la capacità di trovare nuove strategie di adattamento in situazioni di disagio professionale, consentendo una crescita individuale e sistemica che coinvolga l’identità personale e professionale del docente. E’ una materia che mira alla scoperta e al potenziamento di quelle parti sane dell’individuo, inteso come persona che fa parte di un contesto di appartenenza e dotato di una mente relazionale, in grado di crescere in maniera ecologica e parallela rispetto agli altri individui del gruppo di lavoro.
L’ultima edizione del Giornale “La Professione di Psicologo”, organo ufficiale dell’Ordine Nazionale degli Psicologi è stata interamente dedicata alla Scuola e intitolata “I Servizi Psicologici per la Scuola”.
All’interno di questa edizione è stata realizzata un’intervista al Prof. Guido Petter e troviamo stimolante, per una riflessione attuale e futura, riportare alcune sue parole.
Alla domanda sulla riscoperta e sulla rivalutazione del ruolo della passione per la professione di insegnante, il professore ha risposto:
“Avere passione per il mestiere che si esercita è certo importante nel caso di tutte le professioni, perché significa, per una persona, identificarsi con l’attività che svolge, sentirsi realizzata attraverso di essa, trovare in essa continui motivi di soddisfazione e di crescita (e purtroppo molte volte non è così, quando per esempio si è costretti ad accettare un lavoro che proprio non piace e al quale ci si sente estranei).
Nel caso delle cosiddette “professioni d’aiuto” [...] questa “passione” assume un ruolo anche più rilevante, perché non ha allora solo una ricaduta personale [...] ma anche un’importante ricaduta sociale.
Infatti, un insegnante che ha passione per il proprio lavoro tende costantemente a migliorare la propria preparazione, ad acquisire sempre nuove conoscenze e abilità, e ciò si riflette positivamente sugli allievi, con i quali svolge la sua attività educativa.
Inoltre, questi ultimi avvertono il suo entusiasmo e ne vengono facilmente coinvolti. E, in qualche misura, lo avvertono anche i genitori, che più facilmente possono allora impegnarsi nelle direzioni da lui indicate.
E lo avvertono anche i colleghi: è un dato di fatto che, quando in una scuola opera un piccolo nucleo di insegnanti “appassionati”, anche gli altri si lasciano coinvolgere in iniziative educativamente importanti, e il tono di
tutta la scuola si alza”. Riteniamo che, in linea con il titolo e l’obiettivo del corso, i gruppi hanno contribuito ad un’iniziale modifica dell’atteggiamento dei docenti e dei dirigenti verso le problematiche emotive, con la sfida di muoversi tutti verso una “Scuola di Salute e Condivisione”.

Fonte: "L’approccio psicologico al disagio mentale professionale e al Burnout: orientarsi dal problema alla gestione proficua del conflitto attraverso strategie personali e di gruppo"

Centro di Psicoterapia Familiare