mercoledì 30 marzo 2016

MIO FIGLIO E' DISABILE

Il sostegno del gruppo

L’arrivo di un bambino altera i normali equilibri familiari e di coppia, questo evento già stressante di per sé può raggiungere livelli maggiori nel caso in cui il bambino presenti una malattia o una disabilità, fisica o psichica, la quale altera il suo normale sviluppo.


La sola presenza di un terzo nella coppia trasforma di per sé i normali equilibri e ritmi famigliari, l’intimità di coppia, il tempo libero, la cura per la propria persona; tutti questi elementi vengono sostituiti con le attenzioni di cui un bambino necessita.
Partendo da questo presupposto immaginiamo come un bambino con un disturbo dello sviluppo possa influenzare la vita dei genitori. Questo evento comporta uno stravolgimento non solo dei normali ritmi familiari ma una vera e propria rivoluzione nell’individuo; il genitore deve fronteggiare inizialmente un processo di elaborazione del lutto attraverso il quale abbandonare l’immagine del figlio sano e “perfetto”. In secondo luogo dovrà riadattare i progetti e le aspettative sul proprio futuro e  sul futuro del piccolo, prendendo atto dell’attuale situazione.
Si tratta di un processo psicologico e pratico necessario ai fini dell’accettazione della condizione del proprio bambino; la sua mancanza potrebbe influire su un percorso di crescita del bambino, infatti, il genitore che non ha superato il trauma della diagnosi potrebbe non essere in grado di fornire al proprio figlio le cure e le attenzioni a lui fondamentali per una crescita il più possibile sana.
Ma cosa succede al genitore quando deve affrontare la sua situazione al di fuori delle mura domestiche? Come cambierà la sua vita e le relazioni con gli altri?
Difficile a dirsi, ogni genitore cerca di affrontare la situazione come meglio crede, in base anche al proprio stile di personalità. Molti si iscrivono a delle associazioni di supporto, perché in queste trovano conforto, e condivisione laddove la sofferenza può essere meglio riconosciuta e compresa. Questa tipologia di genitore, soprattutto nei primi anni, tende a circondarsi di persone che hanno attraversato o stanno attraversando una situazione analoga.
Altri genitori, invece, tendono a chiudersi in un nuovo mondo fatto di solitudine e fatica, di poca comunicazione e contatti sociali diradati.
In questo caso l’errore più grande è pensare che “l’Altro” non possa comprendere cosa si prova di fronte ad una situazione critica come l’accudimento di un figlio disabile, pertanto l’isolamento risulta erroneamente essere la migliore alternativa possibile.

Diverse ricerche testimoniano come una ricca rete di supporto sociale sia fondamentale ai fini dell’elaborazione del trauma della diagnosi per questi genitori. Naturalmente la famiglia e il gruppo di amici risultano di fondamentale importanza, ma non sono i soli, esistono infatti associazioni che supportano e aiutano questi genitori, composte di  famiglie a cui è accaduto qualcosa di analogo, e che trasmettono un certo grado di competenza in merito. Per cui spesso preferiscono parlare della propria situazione che persone che stanno o hanno passato una situazione uguale alla loro. Il gruppo permette di sentirsi meno soli, più compresi. Spesso queste famiglie provano un senso di colpa per la loro situazione, alcuni si sentono addirittura responsabili per la condizione del figlio, sono spaventati dal provare emozioni contrastanti nei confronti del loro bambino.
La condivisione della propria esperienza o l’ascolto di quella altrui diventa così un momento di elaborazione delle proprie emozione, di confronto e di crescita.
Con-dividere si può leggere come un dividere-con che significa dimezzare i pesi e le fatiche con qualcun altro capace di reggere. Alleggerirsi di una sofferenza attraverso il sostegno reciproco.
Non solo chi ha vissuto uno stesso trauma può essere di aiuto, la chiave quindi sta in primis nell’esprimere il proprio malessere legato all’idea di aver procreato un bambino con dei problemi e di doverne affrontare tutte le difficoltà che ne seguono, ed in secondo luogo affidarsi, imparare a chiedere aiuto, che più che un segno di debolezza è una dimostrazione unica di coraggio!

Dott.ssa Chiara Giaquinta
Laureata in psicologia e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara.
Dott.ssa Ivana Siena
Psicologa e Psicoterapeuta


giovedì 24 marzo 2016

A CIASCUNO I PROPRI SPAZI


Avete mai provato la sensazione di sentirvi soffocati, invasi e frustrati? Se la risposta a tale quesito è SI, è probabile che si sia verificata nella vostra vita una rottura dei propri confini o addirittura un loro non riconoscimento.

I confini personali sono i limiti che definiscono dove inizia e finisce il nostro spazio personale fisico, emotivo e mentale. Questi margini, naturalmente sono flessibili, allargabili o no a secondo del tipo di relazione che vogliamo stabilire con gli altri (con il/la partner, in società, in famiglia, con i colleghi...) e a secondo della situazione in cui ci troviamo.
Edward T. Hall, un antropologo statunitense, nel corso dei suoi studi si è occupato prevalentemente di prossemica, ovvero lo studio del rapporto tra comunicazione ed uso degli spazi interpersonali, individuandone quattro tipi:
·  distanza intima (0-45  cm). Questa è la più vicina al nostro corpo, poiché in essa si verificano diversi fenomeni emozionali, per cui possono accedervi soltanto persone con le quali si sia stabilito un rapporto di intimità (genitore - figlio, coppia).
·  distanza amicale/personale (45-120 cm). Caratterizza le relazioni tra conoscenti che si sentono a proprio agio. Alla zona personale possono accedere familiari, amici, colleghi e tutte quelle persone con le quali di solito si hanno rapporti di affabilità. Questa distanza ci permette di essere maggiormente obiettivi e meno invischiati come accade nella relazione intima.
·  distanza sociale (1,2-3,5 metri). È lo spazio riservato ai contatti sociali meno profondi, più convenzionali e formali.
·  distanza pubblica (oltre i 3,5 metri). Riguarda le pubbliche relazioni, incontri di lavoro, seminari, cerimonie, conferenze e spettacoli... Tale distanza è regolata, di solito, da precisi protocolli e spesso stabilisce il potere di un individuo sugli altri.
Naturalmente la quantità di spazio di cui ognuno di noi ha bisogno è soggettiva poiché in alcuni casi può essere maggiore, in altri minore. Spesso, però, per paura di offendere l’altra persona o per quieto vivere non esercitiamo il diritto di rispettate i nostri confini e lasciamo che l’altro invada il nostro spazio, manipolandolo o obbligandoci a fare qualcosa contro la nostra volontà, ed è proprio in questi casi che ci sentiamo sopraffatti.
È fondamentale, quindi, definire e conoscere i propri confini e far in modo che essi vengano rispettati in qualsiasi relazione al fine di non creare né dipendenza né troppa distanza. Trovare il proprio equilibrio è basilare e allo stesso tempo, è necessario che esso sia dinamico.
Come facciamo allora a identificare i nostri confini? È necessario conoscere se stessi, riconoscere e sentire le proprie reazioni emotive, il pensiero che queste emozioni ci suscitano e quali azioni mettiamo in atto per gestirle. Queste sono una guida infallibile, perché quando qualcuno cerca di invadere il nostro spazio, è il corpo che per primo lo segnala, ma questo non è altro che il propagarsi della reazione che abbiamo provato a livello emotivo.
Quando ci sentiamo a disagio, infastiditi, frustrati, arrabbiati, delusi dopo un commento o un comportamento è importante capire il perché quelle  parole o quegli atteggiamenti hanno provocano in noi quelle sensazioni o reazioni. Non bisogna reprimere ciò che stiamo ‘sentendo’ perché faremmo un danno solo a noi stessi accumulando stress e tensioni che potrebbero poi sfociare in una reazione esagerata.
Se conosciamo i nostri confini, difficilmente chi si troverà di fronte a noi potrà invadere il nostro spazio. Se non riusciamo a comunicare in primis a noi stessi e poi agli altri qual è il nostro spazio, non facciamo altro che consegnare il nostro potere personale in mano all’altra persona. Quindi, come spesso accade, non è l’altro che ci invade, ma siamo noi che lasciamo i cancelli aperti e ci facciamo mettere “i piedi in testa”.
In conclusione appare chiaro come  rispettare e conoscere se stessi è fondamentale per ottenere anche il rispetto e riconoscimento altrui.

 Dott.ssa Luisana Di Martino
Laureata in Psicologia a Chieti (CH) e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara (PE).



mercoledì 23 marzo 2016

IL CORAGGIO DI DIRTELO


Un semplice dolore, fastidio, un esame di routine ... e tutto cambia.
La maggior parte delle persone, almeno una volta l’anno, si reca dal medico di famiglia per farsi prescrivere un emocromo. Questo semplice esame, però, per alcuni è l’inizio di un susseguirsi di accertamenti, approfondimenti, indagini, fino ad arrivare un giorno, ad una diagnosi:
“lei ha un carcinoma..., lei ha una neoplasia..., dagli esami effettuati è emerso che lei ha delle metastasi...”.


Il camice bianco parla, e tutto a un tratto ci si sente frastornati, stanchi, affaticati, gli occhi seguono il labiale, ma la mente è spenta e prima che ce ne rendiamo conto, siamo fuori dalla stanza, con un nuovo foglio tra le mani e un nuovo appuntamento. Da quel momento la bocca resta in silenzio e gli occhi iniziano ad urlare: “ho Paura”. Ed è questo il sentimento più legittimo, ma probabilmente non lo è il silenzio che ne consegue. Nelle righe successive cercherò di argomentare al meglio questo pensiero.
Nulla accade per caso. Pensate io sono la figlia di un ex-paziente oncologico e poi ho avuto il piacere di trascorrere, come tirocinante in psicologia, sei mesi della mia vita nel reparto di Oncologia Medica di un ospedale del centro Italia. Cosa ho imparato da questa esperienza? Ad amare ogni secondo della mia vita e di chi mi sta accanto.
Quotidianamente siamo presi da impegni, scadenze, ritmi di vita a volte soffocanti e tutto questo molto spesso ci fa perdere l’orientamento, ciò che desideriamo e sentiamo realmente. Poi un giorno arriva una diagnosi e iniziano i “se” e i “ma”, arrivano i compromessi, i rimpianti, i sensi di colpa, senza renderci conto che stiamo continuando a perdere tempo, il tutto aggravato da quel senso di paura che si chiama morte.
Ogni volta che si presenta un evento avverso nella nostra vita la domanda che sorge spontanea è: “perché proprio a me?”. Io stessa, a suo tempo, mi sono posta questa domanda, senza trovare risposta, allo stesso tempo non avevo nemmeno il coraggio di esternare questa preoccupazione, sapete perché? Perché avrei ammesso a me stessa e agli altri di aver paura.
Spesso si crede che esternare questo sentimento sia indice di debolezza. Vi posso assicurare che non è così. Tenere nascosta la paura vuol dire morire prima del tempo, come se ad ucciderti non fosse il cancro, ma tu e il tuo maledetto silenzio, quella stupida convinzione che meno se ne parla e meglio è. Idiozia.
Spesso ho sentito parenti che chiedevano al medico o allo psicologo stesso di tacere sulla diagnosi, anche io sono stata una di quelle che ha omesso, o meglio lo pensava.
Tale richiesta ha motivo di esistere in quanto si crede sia necessario proteggere la persona colpita dal male, proteggerla attraverso il silenzio, la negazione. Pensateci un attimo però... Secondo voi è possibile che un malato di cancro non sappia cosa sta per affrontare e cosa rischia? Inoltre, senza contare tutta l’informazione che si fa oggi su queste malattie, pensate davvero che chi è costretto a sottoporsi a tali cure non sappia cosa sia una chemioterapia? Una radioterapia? Sembra incredibile e poco realistico!!! È a loro che viene inserito un ago nelle vene, iniettato un medicinale che il più delle volte ti da nausea, vomito, diarrea, fa cadere i capelli, ti provoca dolore fisico...
La paura e il dolore spesso sono raccontati solo con gli occhi. Quegli occhi urlano smarrimento, tensione, negazione.
Condividere le emozioni, per molti di questi pazienti, non assicura loro la guarigione, ma assicura “il non sentirsi soli” e meno affaticati. Vi sembra poco? Pensate ad un’azione quotidiana banale, esempio portare la spesa a casa, se si è in due il peso è minore perché condividiamo quel carico. La stessa cosa accade per le emozioni. Dire “ho paura”, ammetterlo a noi stessi oltre che allo stesso caro, affetto da questa malattia, aiuterà entrambi a LOTTARE.
Probabilmente la storia avrà un finale nefasto e chi continuerà a vivere, soffrirà della mancanza di quel corpo che non vedrà più, di quell'abbraccio che faceva sentire protetti, di quella voce che  rassicurava, ma se si riesce ad esternare ciò che si prova davvero, aiuta a compensare le mancanze materiali attraverso i ricordi. Gioiosi o dolorosi che siano, li sentirete vivi, perché esternare il proprio vissuto attutisce, o elimina del tutto, il rimorso di quelle parole non dette.

La malattia purtroppo ci sarà sempre, ciò che ancora oggi manca è il coraggio di esprimere il dolore e la convinzione che sia meglio che anche l’ammalato lo possa esprimere, con l’unico intento di sentirsi meno solo e sconfitto.


Dott.ssa Luisana Di Martino
Laureta in Psicologia a Chieti (CH), tirocinante della Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara (PE)

giovedì 10 marzo 2016

IO DEVO... IO POSSO


Provate per un attimo a sostituire all’interno di una proposizione, il verbo “dovere” con il verbo “potere”. Vi accorgerete come tutto il significato della frase, ma soprattutto il vostro umore cambierà!!!



Fin da piccoli non hanno fatto altro che ripeterci: “devi fare così, non devi dire così... Devi! Devi! Devi!” Tutto sembra un obbligo, una costrizione anche leggere un libro, guardare un film, riunirsi a tavola diventa un dovere. Provate a pensare a quanto questo verbo imperante sia presente nei rapporti interpersonali o semplicemente nelle normali attività quotidiane... tutto risulta essere molto più faticoso.  
Personalmente, in qualsiasi modo io declini questo verbo, mi sento soffocata, stressata e nervosa, perché? Dovere è sinonimo di obbligo, il quale a sua volta è sinonimo di vincolo, quindi qualcosa che è dettato da qualcos’altro o da qualcun altro. Ok, ma IO dove sono? Tante volte finiamo per perderci e troppe volte ci ritroviamo a dire o pensare frasi del tipo: “avrei tanto voluto fare... e invece ho dovuto...”.

Riporterò alcuni esempi di vita quotidiana per spiegare al meglio il mio pensiero.
Probabilmente, per la maggior parte delle persone, il momento della giornata più bello è la messa a letto perché finalmente mente e corpo possono rilassarsi e invece... “devo mettere la sveglia, perché domani devo andare in ufficio prima perché..., devo portare i bambini a scuola..., devo andare in palestra e così via discorrendo” e cosa succede? La mente si affatica ancor prima di provar a rilassarsi. Proviamo allora a sostituire il verbo: “posso mettere la sveglia a quest’ora così ho la possibilità di arrivare prima in ufficio e svolgere quella commissione..., posso portare i bambini a scuola e poi potrei...” Non sembra ci si senta un po’ meno affaticati?

Tutto questo dovere, alla fine porta alla frustrazione, la quale si ripercuote sul nostro vissuto e invece di fermarci a riflettere sul perché ci sentiamo così e di conseguenza cercare di cambiare il nostro pensiero e il nostro comportamento, non facciamo altro che criticare tutto ciò che ci circonda. Apparentemente è più facile credere di cambiare ciò che esterno a noi, provate però per un periodo a cambiare il verbo dovere in potere e vedrete come tutto avrà un aspetto diverso. All’inizio crederete che siano le situazioni e le persone a esser cambiate, ma in realtà sarà il vostro pensiero. Le norme, gli impegni, le attività... rimarranno le stesse, ma la vostra mente e il vostro corpo vi ringrazieranno perché finalmente avranno perso quel senso di affaticamento e di stanchezza.
Il segreto è quindi impossessarsi di una decisione, riconoscere di essere gli artefici di una scelta che è tutta racchiusa nel verbo “potere”. Laddove posso, mi metto in condizione di fare una riflessione anche sul “voglio”.
Sembrerà strano, ma la maggior parte delle attività quotidiane, il lavoro o lo studio compresi, sono frutto di una scelta fatta anni prima, se non proprio nell’infanzia. Riconoscere questo movimento ci permette di non vivere le nostre attività come un obbligo, inoltre qualora ad oggi dovessimo riconoscere che il “devo” pesa troppo ricordiamo che siamo sempre in tempo a farci una nuova domanda: “come posso cambiare per stare meglio?”
Buona scelta!

Dott.ssa Luisana Di Martino
Laureata in Psicologia all’Università “G. D’Annunzio” di Chieti e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara.

Dott.ssa Ivana Siena
Psicologa Psicoterapeuta