venerdì 22 febbraio 2013

DISABILITA'


LA FAMIGLIA DI FRONTE ALL’HANDICAP



I legami che uniscono i membri di una famiglia hanno caratteristiche ben definite: sono fortemente vincolanti, presentano cioè una libertà limitata; sono strutturati secondo una gerarchia; sono fondati su processi di reciprocità e di reciproca lealtà.
Per quanto riguarda la gerarchizzazione dei rapporti essi sono prevalentemente regolati in base alle generazioni.
Queste considerazioni sono da tenere presenti anche nel caso delle presenza di un figlio che presenta un handicap, che pur limitandone l’autonomia, non ne annulla comunque un’evoluzione parziale verso forme ed esigenze di vita adulta. Gli aggiustamenti da trovare saranno più complessi non potendo contare su parametri socialmente riconoscibili e condivisi. Il cammino verso il ruolo adulto andrà incoraggiato anche dai genitori, che tendono a viverlo come “figlio per sempre”.
Per quanto riguarda la relazione di attaccamento va sottolineato che essa regola anche il concetto di lealtà, di affidabilità del legame.
Boszormenyi-Nagy e Spark mette in luce gli aspetti di dovere del legame, dovere che si esprime secondo leggi che implicitamente lo governano, “fibre invisibili, ma solide” che vincolano le relazioni familiari. Gli autori ipotizzano la presenza di “conti” inconsci tra il dare e l’avere del legame familiare, conti che debbono essere saldati secondo criteri di giustizia, pena l’esperienza del malessere psicologico.
Può apparire che il soggetto disabile sia sotto questo profilo, inadempiente, sempre creditore e mai debitore nella relazione.
Se opportunamente condotto nella propria strada di sviluppo, il disabile può “pagare” almeno in parte e con forme simboliche, il suo debito alle generazioni precedenti non solo con il riconoscimento affettivo ma anche operativamente, facendo esperienza di valorizzazione di se stesso e di “consolazione” verso gli altri membri della famiglia.
Se torniamo al concetto di famiglia come sistema capace di conservazione dei propri livelli organizzativi e di cambiamento vedremo che sarà sempre necessario al suo interno una forma di negoziazione. Ciò che deve essere maggiormente negoziato in ogni sistema è la distanza interpersonale tra i membri che include chi è dentro e chi è fuori dalla famiglia.
Minuchin ha descritto le famiglie in base agli stili che la caratterizzano, mettendo in luce i termini di distanza e vicinanza interpersonale:
-         Disimpegnate: caratterizzate da una grande distanza psicologica e affettiva tra i membri, con poca condivisione e legami di attaccamento di tipo evitante. Questo tipo di famiglia tenderà a sottovalutare le difficoltà del soggetto disabile, che si troverà solo di fronte ai suoi limiti;
-         Invischiate: tutti i membri della famiglia si occupano degli affari di tutti, mostrando forme di attaccamento ansioso-ambivalente, che rendono faticoso un processo di individuazione e separazione tra i membri. La famiglia del disabile apparirà iperprotettiva e faticherà a vedere le risorse evolutive del disabile, limitandolo nell’esplorazione con il contagio della propria ansia.

In ogni situazione familiare i compiti di assistenza e di lealtà reciproca, di vicinanza o di distanza interpersonale, possono essere utilizzati per esercitare espressioni di potere: anche in nome della malattia è possibile esercitare un potere, e nascondersi dietro ad essa, manipolando inconsciamente gli equilibri del rapporto e stravolgendo perfino l’ordine generazionale.
Analizzeremo ora come questo avvenga nella coppia, nella famiglia estesa e tra i fratelli.
La coppia e l’assistenza
Nella società attuale nell’ambito lavorativo la donna e l’uomo sono considerati intercambiabili, mentre nell’area domestica le mansioni sono rimaste fissate nell’organizzazione tradizionale: è frequente perciò che la donna abbia di fatto un doppio lavoro, uno come casalinga e uno come lavoratrice con reddito proprio.
La posizione della donna, già faticosa in condizioni consuete, diventa drammatica con l’ingresso nella famiglia della disabilità.
Accade perciò che donne/madri interessate al proprio lavoro si trovino improvvisamente ad un bivio esistenziale penosissimo: il dover scegliere tra il bene del proprio caro e la propria realizzazione personale. Tutta la comunità, compreso il padre e i riabilita tori avvallano la teoria del sacrificio, non prevedendo gli effetti nefasti sulla relazione familiare di un sentimento depressivo della donna, suscitato dalla convinzione di aver fatto una rinuncia troppo grande.
Che cosa accadrà, per esempio, tra madre e figlio se questi non sarà in grado di ricompensare il sacrificio materno con risultati brillanti nella riabilitazione? E ancora: quale sottile potere sarà dato in mano al figlio che può frustrare la madre che ha riposto in lui la sua autostima? Quale responsabilità toccherà al padre, che ha richiesto implicitamente alla propria compagna il sacrificio della realizzazione professionale?
L’handicap, come abbiamo accennato, si presta meravigliosamente ad essere un paravento dietro cui si possono nascondere fini occulti di controllo e di potere: la richiesta di assistenza completa da parte di una moglie richiesta dal marito può nascondere il desiderio intimo di renderla dipendente; la coalizione moglie-madre può essere un tentativo di escludere il coniuge, considerato incapace, dalle scelte familiari nei confronti del disabile….
Anche nei casi più fortunati in cui i coniugi riescono a conservare l’alleanza di coppia, il problema di sentire il figlio come perpetuo terzo pone un’alta carica di ansia verso prospettive future, con perdita per entrambi di uno spazio indispensabile all’esperienza duale.
Nelle malattie degenerative, ad esempio, la diagnosi pone la famiglia di fronte alla famiglia un verdetto tragico in cui è contemplato solo un peggioramento progressivo che non di rado ha come esito la morte. La coppia deve perciò abbandonare bruscamente il proprio progetto di vita, progetto che lascia spesso il posto unicamente alle aspettative di morte. L’improvvisa transizione fa riemergere a livello conscio l’intera storia familiare e personale con tutto il suo bagaglio di risorse ma anche di aree problematiche, talvolta inespresse. Ecco allora che sensi di colpa per mancanze vere o presunte, rimpianti per progetti irrealizzati, sofferenze per lutti non elaborati, irrompono in questo scenario già saturo di angoscia scatenando una reazione di negazione e di fuga. La coppia cercherà di ricercare un tempo “riparatorio” per rinforzare il cordone difensivo per immobilizzare il tempo e lo spazio: lo spazio diventa statico ed il tempo negato.
In questo senso il terapeuta della famiglia si dovrà da “ponte”, ovvero come interlocutore per coniugare le scelte dei genitori e le esigenze del figlio.

LA FAMIGLIA NUCLEARE E LA FAMIGLIA ESTESA

Le famiglie quando incontrano difficoltà, non tendono a ricorrere immediatamente all’aiuto dei servizi pubblici, ma cercano piuttosto l’appoggio della parentela.
Il problema della giusta distanza dalle famiglie di origine, senza né vissuti di abbandono ed emarginazione, né di delega o squalifica può sembrare insormontabile: se saranno disponibili a lasciarsi coinvolgere, in tempi successivi potrebbero diventare fonte di interferenze; se non saranno disponibili presenteranno una delusione così amara da riuscire perfino intollerabile.
I processi di inclusione/esclusione più evidenti sono quelli diretti verso membri significativi della famiglia estesa: sono, infatti, una sorta di vaso comunicante con la famiglia nucleare, verso cui e da cui rifluiscono le situazioni di disagio emotivo.
E’ frequentissimo notare che la solidarietà affettiva offerta da coloro che sono vicini al nucleo familiare viene utilizzata per ri-investire legami che in passato avevano lasciato insoddisfatti. Nasce la comprensibile aspettativa che in presenza di una così grande sventura sarà possibile ricevere quella gratificazione affettiva, prima sospirata invano. Speranze abbandonate, aspettative affettive deluse, ritornano in campo, poiché inconsciamente ognuno sente che la tragedia rende ottenibile ciò che prima, in condizioni normali, era stato negato.

CONVIVERE CON UN FRATELLO DISABILE


Molto importante è la posizione in cui vengono a trovarsi i fratelli sani, che più di tutti risentono della modalità utilizzata dalla famiglia per fronteggiare l’angoscia del trauma. Il comportamento dei genitori costituisce, infatti, un potente segnale per i figli i quali spesso vi si adeguano, adottandolo come un codice di riferimento. L’iperprotettività dei genitori verso il disabile, per esempio, sarà assunta come norma dagli altri figli i quali si sentiranno in dovere di provvedere al fratello in modo da inibire ogni suo sforzo di autonomia. Per contro atteggiamenti di rifiuto e di emarginazione del disabile autorizzeranno i fratelli ad allontanarsi da lui.
Di norma nella famiglia “normale” la scala valoriale assunta dai figli, sul modello proposto dagli adulti, è solitamente improntata sulla protezione, definendo così due ruoli:
-         Quelli che proteggono: gli adulti e i figli maggiori (anche se hanno sei anni)
-         Quelli che ricevono protezione: figli minori e disabili (indipendentemente dalla sua età cronologica).
Agli occhi dei genitori il figlio disabile è per definizione non autonomo: il suo effettivo bisogno di aiuto in alcuni settori si allarga spesso a macchia d’olio, così che il più delle volte il soggetto viene considerato disabile in tutto e per tutto. Per contro gli altri figli ricevono prematuramente la patente di autonomi, di “grandi”, “di quelli che ragionano”, assai prima di meritarla, o di averla desiderata, o di essere in grado di utilizzarla con profitto.
I figli possono essere interlocutori gratificanti dei genitori, dando loro una diversa visione del futuro; se maggiori del bambino compromesso, possono essere di appoggio e di aiuto nel crescerlo. I fratelli sani stimolano il fratelli disabili, distolgono l’attenzione angosciosa dai suoi problemi imponendo le proprie, più gratificanti, esigenze di crescita; danno soddisfazioni ripagando gli sforzi educativi dei genitori e compensandoli delle delusioni che ricevono dal fratello compromesso.
I fratelli sani possono essere gelosi delle eccessive attenzioni che il disabile riceve e dare a propria volta preoccupazioni con comportamenti inaccettabili.
Essi possono sentire le richieste dei genitori come eccessive e rifiutarsi di soddisfarle. Tuttavia se la compromissione del figlio disabile è seria, inevitabilmente ai fratelli sani viene fatto carico di funzioni genitoriali sostitutive che con il procedere della crescita, possono indurre in loro un grave vissuto depressivo. Portare la responsabilità di un soggetto compromesso, già pesante per un adulto, funziona da inibitore per un ragazzo in evoluzione che dovrebbe concentrare tutte le sue forze nell’espandere se stesso e proiettarsi nel futuro.
Purtroppo l’età dei genitori che avanza e la fatica di lasciar emancipare proprio quei figli da cui si sono ricevute gratificazioni rendono estremamente forte la tentazione di trattenerli, mettendo loro dinanzi il fratello bisognoso.
Considerando poi anche il caso fortunato in cui l’emancipazione dei figli sani proceda per il meglio ed essi si dedichino a costruire un proprio futuro autonomo, pesa comunque su di loro la consapevolezza di dover subentrare ai genitori nei compiti di assistenza quando questi per l’età, la malattia, o la morte non potessero più farvi fronte. Coloro che reagiscono a tale responsabilità con rifiuto o ribellione spesso si trascinano per tutta la vita un profondo senso di colpa; per contro la possibilità di riuscire a recuperare una vicinanza con il fratello disabile riuscendo a tollerare la propria impotenza di fronte alla sua sofferenza riuscirà in seguito ad attenuare il senso di colpa per le gelosie, le piccole mancanze vissute nei suoi confronti in passato ed in ultima analisi di essere sani.


Centro di Psicoterapia Familiare

COMUNICAZIONE IN TERAPIA


La genesi della CNV


“(…) Insomma, stavo capendo, in un esercizio continuo, che la Comunicazione è una questione di tatto, ed ero molto felice di sentire che la mia mamma vedeva dall’esterno le mie risposte sotto forma di movimenti ai quali cominciava ad attribuire significato. Non stavamo mai in silenzio, ci mandavamo messaggi continui con il linguaggio dei sapori, degli odori, del tono muscolare (…). Riuscivo a mandarle addirittura i desideri così come lei, persino nel sonno, mi mandava straordinarie immagini di un mondo ancora sconosciuto. Ero proprio in un castello incantato, in cui non facevo in tempo a desiderare perché tutto era esaudito (…).
Il corpo racconta… Stefania Guerra Lisi

L’unica forma di comunicazione di ogni bambino nei primi due anni di vita è quella non verbale. Attraverso i gesti e la mimica lui si rapporta con la sua figura di riferimento e con il mondo esterno esprimendo manifestazioni affettive e richieste di soddisfacimento dei suoi bisogni. Queste prime interazioni con l’ambiente circostante, già dalla vita prenatale, sono il fondamento delle modalità di apprendimento futuro di ogni bambino. La “corporeità della mente” è dovuta alle immagini sensoriali, conservate in quella che viene chiamata memoria procedurale, che ne determinano la soggettiva reattività rispetto all’ambiente circostante.  Una memoria che include il rapporto complessivo di azioni quotidiane, di affettività e di aspettative che il bambino si crea. Ciò si traduce in un senso di azione e reazione che va oltre la semplice analisi dei cinque sensi.
Per percepire il proprio corpo è necessario tenere presente il suo confine anche se sentirsi accolti nel proprio ambiente, sentire i propri messaggi compresi e accettati fa sì che l’atteggiamento di apertura sia sempre maggiore verso di esso. Nelle situazioni di rifiuto o disconferma da parte dell’ambiente circostante ogni essere vivente si pone in posizione di chiusura o di cattiva ricettività, e di conseguenza inadeguata reattività agli stimoli esterni. Pertanto può venir attuato un tentativo di non comunicazione attraverso il silenzio o una modalità di espressione distorta, ma come sappiamo questo tentativo è di già per sé  comunicazione e quindi può essere compreso, come qualsiasi altro atteggiamento di chiusura.

·        La CNV nella terapia relazionale

In un contesto terapeutico il linguaggio del corpo costituisce uno degli elementi più importanti dell’analisi della comunicazione del sistema famiglia e contribuisce a determinarne il contesto.
È impossibile nella vita quotidiana distinguere i vari livelli di comunicazione in quanto si intersecano continuamente influenzandosi a vicenda. Pertanto non è semplice determinare una gerarchia dei modi di comunicare, se il modo verbale comporta l’informazione intenzionale esplicita, altri modi assicurano altrettante necessarie funzioni per lo svolgimento dell’interazione e per la trasmissione delle conoscenze.
Nel linguaggio corrente una persona molto comunicativa è una persona la cui espressione verbale è arricchita da una notevole espressività corporea.
La riscoperta del corpo, della sua funzione comunicativa e il ruolo indispensabile che ha nell’apprendimento sono necessità nel processo di osservazione dell’altro e dei linguaggi legati ai canali sensoriali attraverso cui essi si esprimono.
Nell’ottica sistemica incontrare una famiglia o un singolo paziente significa valutare tutta una serie di informazioni che derivano innanzitutto dalla conoscenza della loro storia, quindi i fatti più importanti della vita delle persone coinvolte nell’intervento terapeutico, ma anche dall’osservazione del qui ed ora, ossia da come la famiglia si rapporta sia al suo interno che con il professionista che si confronta con lei.
Un dato importante da tenere presente è il fatto che qualsiasi terapia ha inizio con il primo contatto telefonico in cui oltre allo stabilire tutta una serie fattori pratici quali ad esempio orario e luogo dell’appuntamento, è possibile osservare ed annotare un gran numero di fenomeni: peculiarità della comunicazione, tono della voce, richieste di ogni genere di informazioni o addirittura tentativi immediati di manipolazione che a volte possono operare quasi verso una inversione dei ruoli tra famiglia e terapeuta.
Un terapeuta familiare può trovarsi di fronte a sterili dati di fatto che lo legano al contesto in cui avviene il colloquio, ma deve integrare il tutto con un’osservazione selettiva atta a ricercare un metodo che gli permetta di superare i vari livelli di complessità nella comprensione del rapporto terapeutico. Ci saranno terapeuti più portati a concentrarsi sull’espressione verbale del paziente, altri che invece nella loro formazione hanno scoperto una maggiore propensione verso l’osservazione dei segnali del corpo; il lavoro dell’équipe è fondamentale a tal proposito. Uno strumento affidabile che registra l’interazione che sta avvenendo al di là del vetro sotto ogni punto di vista e la somma a quelle che sono le rilevazioni relazionali fatte dal terapeuta stesso. Ad esempio nel post – seduta il terapeuta può esplicitare una certa sensazione che ha avuto durante la seduta la quale può essere confermata o smentita dai colleghi, incaricati della supervisione, che hanno la possibilità di cogliere sequenze mimiche particolari in  corrispondenza di specifici scambi interattivi del sistema terapeutico, oppure attraverso l’analisi della videoregistrazione della seduta.
L’analisi della comunicazione non verbale diventa quindi essenziale per la comprensione del significato di ciò che accade nelle interazioni familiari e nell’evoluzione del rapporto terapeutico e del sistema terapeutico.

·        La CNV nella pratica clinica

Il problema centrale di ogni relazione, anche terapeutica, è che cosa si comunica e come si comunica. Sia per il linguaggio verbale che per quello non verbale si può asserire che l’assenza di determinate componenti, siano esse espressive o gestuali, causa incomprensione e fraintendimenti dei concetti che una persona sta esprimendo. Lo stesso vale per la modulazione e la sintassi dei discorsi argomentati che attraverso l’intensità e le sfumature dei vari contenuti, influiscono sul significato complessivo della comunicazione, quindi sul come si sta comunicando.
In ambito clinico la relazione che si viene a creare è tra due persone che trovano un accordo sulla modalità di comunicare e l’interpretazione dell’esperto diventa man mano più attenta e ricettiva quanto più lui stesso si sente di condividere i significati e le emozioni della persona che ha di fronte in una sorta di risonanza. Ogni percezione è selettiva onde evitare una disorganizzazione derivante dall’enorme massa di stimoli che arrivano ai sensi. Un’attenzione selettiva o troppo bassa o troppo diffusa può portare all’impossibilità di dare coerenza e il giusto significato a quanto si osserva nell’altro.
A livello individuale il linguaggio del corpo è composto in parte da una mimica che rappresenta soltanto la storia del soggetto in questione; il modo in cui l’individuo si presenta ed entra in relazione va percepito e condiviso al fine di entrare in sintonia con il suo modo di comunicare con noi. Il focus dell’attenzione del terapeuta è sulla mimica che per alcuni può essere molto vivace mentre per altri può essere povera, se non del tutto soggetta a un rigido controllo. La capacità di manifestare le emozioni dice molto sulla persona che si ha di fronte, e la mancanza di una certa espressività facciale o corporea non deve trarre in inganno facendo pensare che questa non è capace di provare emozioni; in una prima analisi è sempre bene ipotizzare che chi sta di fronte non  riesce a manifestarle, andando a ricercare la causa di un tale comportamento anche all’interno delle abitudini familiari.
A livello relazionale, ossia quando sono coinvolte più persone su un piano intrasistemico, il linguaggio del corpo diventa espressione di sentimenti che non hanno solo origine all’interno del singolo individuo, ma che si arricchiscono dell’interazione con gli altri in un contesto in cui gli stimoli esterni variano di continuo. Inoltre compare anche una nuova componente ad influenzare il tipo di espressione dei propri vissuti che è il fine che ci si propone di ottenere. La risposta a sua volta modulerà nuovamente l’espressione accentuandola o inibendola, in una dinamica circolare tipica dell’interazione sistemica.
Rimane da accennare a quella particolare forma di comunicazione non verbale rappresentata dai sincronismi osservabili in terapia tra tutte le persone presenti.  Si tratta di movimenti del corpo accompagnati da espressioni mimiche che si verificano contemporaneamente in diversi momenti della seduta e sembrano contraddistinguere specifiche sequenze interattive. In genere si riscontrano in momenti in cui vengono trattati argomenti di particolare rilevanza emotiva, una sorta di codice comunicativo che si è andato creando nel sistema terapeutico.
Un altro elemento fondamentale è dove si colloca lo psicologo relazionale. La distanza fisica dal punto in cui convergono le informazioni della famiglia indica il coinvolgimento psicologico: in una posizione troppo ravvicinata rischia di farsi coinvolgere troppo e di assorbire tutto ciò che viene portato dal cliente; ad una giusta distanza invece, può ricollegare le informazioni in una nuova dimensione spazio-temporale. Il terapeuta deve sintonizzarsi con il sistema emotivo familiare, per poi distaccarsene, ridefinendo il significato emotivo stesso, in una cornice più allargata nella quale vengono inclusi i diversi livelli generazionali. 

Dott.ssa  Ivana Siena
 VEDI ANCHE: COMUNICANDO  e  CNV