martedì 28 agosto 2018

IL SEGRETO DEL FIGLIO




Osservo la vita dei miei figli cresce, diventare autonoma e farsi ai miei occhi sempre più misteriosa.
Penso che questo mistero sia il marchio di una differenza che deve essere preservata e ammirata anche quando può sembrare sconcertante.Resto sempre stupito di fronte alla loro bellezza e alla loro indolenza.
Infinitamente diversi da come ricordo la mia condizione di figlio.
Eppure così incomprensibilmente uguali.
Non pretendo di sapere o di comprendere nulla della loro vita, che giustamente mi sfugge e mi supera.Nel camminare fianco a fianco – nel silenzio dei nostri corpi vicini – percepisco il rumore del loro respiro come una differenza inesprimibile.È un fatto: ogni figlio porta con sé – già nel suo respiro – un segreto inaccessibile.
Nessuna illusione di condivisione empatica potrà mai venire a capo di questa strana prossimità. La gioia tra noi accade proprio quando l’incondivisibile che ci separa, genera una vicinanza senza nessuna illusione di comunione.
I nostri figli sono nel mondo – esposti alla bellezza e all’atrocità del mondo -  senza riparo.
Sono – come tutti noi – ai quattro venti della vita nonostante o grazie all’amore che nutriamo per loro.Non so davvero nulla della vita dei miei figli, ma li amo proprio per questo.
Sempre alla porta ad attenderli senza però mai chiedere loro di ritornare.Vicino, non perché li comprendo, ma perché stimo il loro segreto.

Milano – Noli – Valchiusella,
gennaio 2017
Il segreto del Figlio, Massimo Recalcati, Feltrinelli 2017

venerdì 2 giugno 2017

CONSAPEVOLEZZA: LO STRUMENTO PER PRENDERE IN MANO LA PROPRIA VITA



La mancanza di consapevolezza è il problema di molte persone che vivono la loro vita da spettatori.

“Avevo tutto per essere felice, ma nel profondo sapevo di non esserlo”.
Questa solo una delle affermazioni più consuete nelle persone che vivono la sensazione di non avere il controllo sulla propria vita. Più le “non azioni” aumentano, più l’avvenire appare ai loro occhi ripetitivo e minaccioso.

Esiste un istinto all’autorealizzazione che spinge ognuno di noi verso un maggiore governo della propria vita, tuttavia molte variabili impediscono che questo istinto emerga e si tende a rinunciarvi. Basti pensare al volere di un genitore che magari risulta diverso dalla naturale propensione del figlio; rappresenta sicuramente un classico movente per cambiare la propria rotta al fine di compiacere gli altri.

Ancora, scegliere un lavoro che implichi la possibilità di una sicurezza economica fissa a scapito di un lavoro che metta in luce le proprie attitudini e passioni.

La rinuncia ha un costo notevole ed a lungo andare può creare un malessere non indifferente e sfociare, nel peggiore dei casi in una depressione.

Nascere protagonisti o diventarlo

La vitalità con cui ogni bambino nasce è un enorme dato di partenza che facilita la vita. L’ambiente e l’educazione familiare pongono dei condizionamenti che possono spingere più o meno verso un’autorealizzazione.

Molte persone che non sono abituate a scegliere per sé, sacrificano una vita da inventare in virtù di una tranquillità apparente che negli anni si trasforma in inezia e porta sempre il suo conto da pagare.
Pertanto è giusto dire che tendenzialmente famiglie “controllanti” disegnano sin da subito la mappa da percorrere per i propri figli, ma questi possono, se non devono, ridisegnarla nel momento in cui se ne sente la necessità.

Assumersi la responsabilità della propria vita

Il blocco è rappresentato da una sorta di autorizzazione perenne che si attende, un permesso a poter essere se stessi senza deludere gli altri.
Questo permesso da adulti non va richiesto.

Essere adulti significa assumersi a pieno la responsabilità delle proprie scelte, delle proprie azioni e della propria vita. Fino a quando non si smette di attribuire il proprio male agli altri, al passato, alle circostanze esterne non si sarà mai attori della propria vita.

Osare e scegliere sono due verbi che implicano da un lato un rischio, dall’altro la consapevolezza di poter sostituire e certezze di ieri con delle nuove, più adatte ad affrontare il presente.


Cominciare dalle piccole consapevolezze

Diventare attore della propria vita è quindi ammettere di avere sempre una possibilità di scelta.

È quindi necessario fa cessare il fiume di consigli e indicazioni che arrivano dall’esterno ed avere il coraggio di esplorare i propri desideri ed infine, fidarsi di se stessi.

Tutto questo per definire i confini di una vita nuova, non per forza straordinaria, ma sicuro più soddisfacente.

Dott.ssa Ivana Siena

DISINNAMORARSI DI CHI NON CI VUOLE PIU'

«Come si fa a disinnamorarsi?», ma anche «come ci si disinnamora?». Sembrano domande con così tante risposte (basta guardare i risultati della ricerca di queste due domande su Google) da essere di fatto senza risposta. Almeno, senza una risposta univoca e valida in tutti i casi. Invece una risposta c’è.
Come cancellare il sentimento
Se, come spiega il presidente dell’Accademia italiana per la salute nella coppia Emmanuele Jannini, «non sappiamo cos’è che ci fa innamorare, di conseguenza è difficile stabilire come si può disinnamorarsi», una sorta di «terapia d’urto» per provare a raffreddare i sentimenti esiste. Basta «perdere la stima della persona di cui si è innamorati», afferma il sessuologo. […]




Questa una parte di un articolo del 17 Aprile 2017 comparso su Corriere.it  che lascia molto riflettere.

PUÒ DAVVERO BASTARE “PERDERE LA STIMA” DI QUELLA DATA PERSONA PER SMETTERE DI AMARLA?

Chi c’è davvero dietro una domanda simile: “come faccio a disinnamorarmi?”
Sono donne? Sono uomini? Poco importa, di sicuro sono, a mio avviso, persone che si sentono  “incastrate” in una relazione mentale, più che concreta, con un partner che non c’è più.
La necessità di disinnamorarsi lascia pensare che da parte dell’interessato vi sia una difficoltà a separarsi, non tanto fisicamente dalla persona amata, in quanto probabilmente questo passaggio potrebbe già essere accaduto, ma mentalmente, dall’idea di quel NOI, il legame.

PRIMA DI DISINNAMORARSI BISOGNA VIVERE L’INNAMORAMENTO

L’innamoramento, può essere definito come un movimento a due in cui si sperimenta la gioia di vivere, lo scambio, il rinnovamento dei propri pensieri e emozioni, l’appartenenza.
Proprio quest’ultima potrebbe rappresentare l’essenza del legame, ciò che spinge a ricercare l’Altro, in quanto al suo interno vi è un vasto numero di significati profondi che apparentemente si racchiudono nella voglia di condivisione, nel desiderio di complicità e nella ricerca di intimità.

PER DISINNAMORARSI È NECESSARIO ESSERE APPARTENUTI AD UN SISTEMA
Ha a che fare con il vissuto antico, più o meno appagante, di  essere parte di un sistema, il primo resta sempre la famiglia d’origine.
Generalmente si può dire che una persona appartiene ad un sistema quando si riconosce parte di esso per valori, regole, tradizioni, comportamenti.
Pertanto la ricerca di appartenenza nei sistemi successivi (coppia) è un proprio bisogno, necessario per il benessere di ognuno.

SOLO SE SI APPARTIENE SI PUÒ ESSERE LIBERI DI SEPARARSI

L’incastro che vive il partner che si dispera nel tentativo di disinnamorarsi, potrebbe quindi dipendere dal non essere mai appartenuti ad una coppia. Potrebbe essere il tentativo di un riscatto affettivo per uno squilibrio d’amore. “Non mi sono sentito/a parte della nostra coppia”, “Ho rincorso l’altro tante volte”. Potrebbe sembrare un credito in sospeso con il partner che però dipende da una mancanza più antica.
Se la relazione finisce può dipendere dal modo di relazionarsi, dalle richieste reciproche, dai bisogni personali messi in secondo piano, da paure che si insinuano dentro di noi sin da bambini, dalle vere motivazioni che ci sono dietro la scelta di quel partner.

Coloro che hanno necessità di disinnamorarsi possono cominciare quindi dall’innamorarsi di se stessi, dal capire cosa li porta a mettere il partner al centro della propria vita anche quando lui/lei rifiuta il rapporto.
Disinnamorarsi a mio avviso non dovrebbe essere denigrare la figura dell’altro, ma dare, senza ombra di dubbio, più valore a se stessi.
Dott.ssa Ivana Siena

Fonte: Psiche.Org



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martedì 10 gennaio 2017

COME SUPERARE LA DIPENDENZA DA PHON

C’è chi parla di ossessione, chi invece la definisce una dipendenza, sta di fatto che il confine è sottile per coloro che utilizzano il phon come mezzo per rilassarsi e liberare il cervello da pensieri negativi.


Esistono infatti molte persone accomunate dalla predilezione per questo apparecchio non solo per la sua funzione pratica di asciugacapelli, ma per il rumore che produce, fonte di calma e rilassamento.
Dalle varie testimonianze emerge che sono diversi i motivi per cui una persona  sente l’impulso di accedere il phon. In primis il fattore rilassamento, che è anche quello più quotato; sembra infatti che tale rumore aiuti a studiare, facilitando la concentrazione, ma anche a pensare, a riflettere e dormire. Molti riferiscono di sentirsi  addirittura coccolati come in una sorta di cappa da cui si sentono protetti e isolati dal resto del mondo.
Il phon può essere tenuto acceso per molto tempo, anche otto ore di fila, soprattutto nelle ore notturne, perché il fatto di lasciarsi avvolgere dal suono facilita, come si è accennato, l’addormentamento e il sonno.
Tutto questo può però portare risvolti negativi nella vita quotidiana; può sopraggiungere la paura di  allontanarsi da casa per molto tempo e possono manifestarsi vere e proprie crisi molto simili a quelle dell’astinenza. Inoltre il dipendente da phon non rimarrà mai senza l’oggetto del proprio desiderio, assicurandosi così che in casa ci sia sempre uno o più phon di riserva per sopperire il rischio di rimanerne sprovvisto.  Come ogni dipendenza quindi richiede un alto impiego di energie psicofisiche, ma anche economiche.
È chiaro che non mancano i pericoli materiali legati ad un utilizzo spropositato del  phon: anche se quello di riscaldarsi è il motivo primario per cui viene utilizzato l’asciugacapelli, sembra che molte volte le persone puntino l’aria calda sulle mani e sui piedi provocandosi delle ustioni e vescicole, inoltre, non sono mancati episodi in cui il phon acceso ha provocato gravi rischi di incendio magari perché utilizzato sotto le lenzuola.

DA COSA È SCATENATO IL MECCANISMO PER CUI NON SI RIESCE A FARE A MENO DI TENERE IL PHON ACCESO?


Diversi studi hanno confermato che il rumore del phon è un rumore bianco o white noise. È quel tipo di rumore che non dà fastidio anzi distende gli animi, emettendo dei suoni che deliziano l’orecchio dell’uomo. Inoltre queste melodie sembrano coprire tutti quei rumori fastidiosi a cui siamo giornalmente esposti.
In alcuni casi sono consigliati perché aumentano la concentrazione. La loro continua ripetizione porta ad una “non informazione della psiche” la quale automaticamente si allontana da pensieri complessi e va in una sorta di stallo.
Anche i rumori naturali come il soffio del vento, il rumore delle onde che si infrangono sugli scogli, lo scroscio della pioggia sono da considerare white noise, piacciono al cervello tanto da non registrarli come disturbanti perché il ritmo e la ripetitività portano addirittura a ignorarli.
Secondo la psicologia dinamica il rumore del phon ricorda i rumori intrauterini che il feto sente durante la gestazione. Nel caso in cui l’individuo non abbia avuto la possibilità di rendersi indipendente dalla figura materna, ritornare, anche solo inconsciamente, nello stato embrionale sembra arrechi un profondo senso di sicurezza e protezione, “un legame con il proprio legame dipendente”, una simbiosi con il proprio caregiver.
Come tutte le dipendenze psicologiche anche questa, seppur non riconosciuta a livello scientifico, crea seri problemi se non affrontata in tempo, cronicizzandosi, ed il tempo impiegato in compagnia del proprio phon può aumentare progressivamente incidendo sulle normali attività quotidiane della persona.
Questa nuova tendenza rappresenta  un  modo come altri di sopperire a un qualche tipo di mancanza. È il cervello che segnala un bisogno della persona, pertanto concentrarsi sul suo significato può aiutare ad  affrontare problematiche più profonde che si nascondono dietro il suo utilizzo.
Dott.ssa Ivana Siena


COME STAR BENE CON GLI ALTRI. L'AUTOSTIMA

Una delle maggiori richieste rivolte a specialisti della psicologia è come migliorare il rapporto con gli altri, con il partner, con i genitori, con i colleghi; molti non sanno che stanno parlando della loro autostima.


La tendenza a percepire l’altro con cui si entra in relazione come “problematico” è molto comune e racchiude difficoltà di comunicazione per le quali non si riesce a vedere chiaramente una possibilità di risoluzione. 

Questa sensazione costante e pervasiva ha in realtà a che fare con la percezione che si ha di sé, spesso messa in crisi proprio dagli altri intorno che, sempre attraverso la comunicazione, ci danno conferme o apparenti dimostrazioni di ciò che siamo. 
Non sempre, però, l’immagine che gli altri ci rimandano indietro è corretta, oggettiva, spassionata; è anzi facile che sia distorta da pregiudizi, bisogni, e tutto ciò che necessitano di vedere in noi per esorcizzare le loro paure. 

L’idea che abbiamo di noi stessi è una costruzione molto complessa, della quale non siamo nemmeno pienamente consapevoli.
L’autostima è proprio la percezione che si ha di sé, quella che si costruisce proprio attraverso i feedback di cui parlavamo sopra. Si possono individuare almeno cinque importanti aree della vita quotidiana attraverso le quali si costruisce: quella sociale, quella scolastica/professionale, familiare, estetico-corporea, intellettivo-culturale (la sensazione di avere delle abilità mentali ed una cultura adeguate e valorizzate nel proprio ambiente).  

Cosa comportano i diversi livelli di autostima


Questa valutazione di sé è dinamica e si muove nel tempo su un continuum che prevede due estremi, quello positivo e quello negativo. 
La bassa autostima aumenta il senso di insicurezza ed inadeguatezza, la convinzione di non essere in grado di  poter contare su se stessi e di essere quindi padroni della propria vita in quanto il pensiero e, ancora peggio, il giudizio degli altri sono fondamentali alla propria sopravvivenza emotiva. La prima cosa di cui è importante rendersi conto è il fatto che già la semplice idea che ci siamo fatti di noi stessi tende a condizionare il nostro comportamento in modo tale da “autoconfermare” l’idea stessa: è il cosiddetto effetto della “profezia  autoavverante”

Nei casi di bassa autostima, la profezia è di tipo catastrofico e viene quindi confermata di volta in volta dal bisogno impellente di fare di un altro esterno il nostro punto di riferimento in quanto “Io non sono capace da solo” di decidere, agire, pensare. Nei casi più gravi sorge una dipendenza verso l’esterno che conferma quindi il proprio sentirsi inutili e invisibili.

 L’eccesso di autostima


Non da meno risulta l’eccesso opposto del continuum in cui un’alta autostima, che, come dicevamo, è necessaria per star bene con se stessi e con gli altri, può diventare a suo modo un  problema.
Troppa sicurezza di sé,  la convinzione di star facendo sempre e comunque la cosa giusta, impediscono una visione obiettiva della realtà.
Questa modalità prevede che la persona non riesca più a confrontarsi con il mondo esterno e ritenga di possedere una saggezza interna che non le permette di accorgersi dei propri errori. 

 Cosa fare per migliorare la propria autostima


Non si nasce con la giusta autostima, essa va piuttosto coltivata, curata, alimentata durante il corso dell'esistenza. Una sana autostima permette di percepirsi in modo realistico e di riequilibrarsi costantemente e in maniera indipendente dal giudizio altrui. 

La lotta al miglioramento continuo richiede un impegno costante nel tempo e una volontà forte di mettersi in gioco in prima persona, lavorando sulle proprie percezioni e su ciò che le ha radicate a partire dall’infanzia fino all’età adulta. 

Una chiave di svolta importante inoltre sta nel valore soggettivo della diversità e della differenziazione rispetto agli altri e al mondo esterno, dove per differenziazione si intende autodefinirsi ed individualizzarsi, per evitare la fusione relazionale e conservare l'obiettività emotiva  all'interno del sistema a cui si appartiene.



Dott.ssa Ivana Siena

giovedì 10 novembre 2016

mercoledì 9 novembre 2016

ALLATTAMENTO E SESSUALITA'


Cosa avviene alla donna durante il periodo di allattamento?

La nascita di un bambino è un evento importantissimo che porta necessariamente a profondi cambiamenti nelle dinamiche del nucleo familiare preesistente, soprattutto per il passaggio dalla diade alla triade.


Questo cambiamento implica un nuovo modo di “stare insieme” per i partner, il quale talvolta va ad incidere sul benessere della coppia anche da un punto di vista sessuale. Molte donne infatti sperimentano un calo del desiderio a ridosso del periodo di allattamento, pertanto ritrovare la propria intimità di coppia diventa sempre più difficile.
Fisiologicamente l’ormone che regola il desiderio sessuale sia nell’uomo che nella donna è il testosterone.
Il bambino nella fase di allattamento mantiene attiva la produzione di latte nella neo mamma attraverso la suzione. Questo processo permette il perdurare della presenza di alti livelli di prolattina, che è un ormone che abbassa notevolmente il desiderio sessuale nella donna, e la riduzione invece del testosterone che, come dicevamo, ha la funzione opposta.
Questo processo fisiologico che la donna vive a ridosso del parto, rappresenta una spiegazione a ciò che comunemente accade nelle coppie che vivono questa delicata fase di vita. Tuttavia le dinamiche psicologiche e comportamentali che possono innescarsi successivamente sono più complesse e legate ai vissuti che sperimenta sia la donna, ma soprattutto l’uomo.
Come può sentirsi, infatti, un uomo di fronte ai cambiamenti di umore, alle ridotte attenzioni e ai rifiuti veri e propri che la donna pratica inconsapevolmente nei suoi confronti in questi momenti?
La risposta è scontata quanto svantaggiosa, infatti i maggiori rischi che si corrono riguardano i fraintendimenti, raffreddamenti reciproci e un allontanamento dei due partner.
Il sesso è una componente fondamentale nella coppia; la sua mancanza, se non momentanea, rappresenta un segnale di una frattura più profonda e lacerante, sulla quale diventa necessario poi investire molte più energie per risanarla.  
La comunicazione è indispensabile in questa fase di vita, diventa un vero e proprio compito di sviluppo per superare una crisi transitoria ed evitare che diventi invece cronica.

Dott.ssa Jessica Bianco 
Dott.ssa ivana Siena




lunedì 24 ottobre 2016

LA SEPARAZIONE AI TEMPI DI IKEA


C’è un nuovo spot dell’Ikea dove un papà bussa alla porta della sua ex compagna perché quel weekend spetta a lui tenere Leon, il loro bambino. I due adulti si salutano con un pizzico di imbarazzo misto a rancore. Probabilmente è la prima volta che si ritrovano in questa situazione dopo la rottura e non sanno ancora quali sono le mosse giuste e quelle da evitare.
Così l’uomo resta sulla soglia della porta con le mani in tasca mentre la donna avverte il bambino dell’arrivo del padre. 


Leon attende seduto sul suo letto e a quel richiamo, zaino in spalla, borsa alla mano, afferra i suoi pennarelli e chiude la porta della stanza rivolgendole un lungo sguardo quasi per fotografarla, portarla con sé e non sentirne la mancanza.
Mentre la macchina corre verso casa del papà, sul finestrino si riflettono degli scenari nuovi per il bambino: strade, palazzi e quartieri insoliti, ancora da conoscere. Allora il piccolo stringe i suoi pennarelli tra le dita: forse ha già nostalgia di casa e quegli oggetti rappresentano l’unico legame con l’ambiente a lui familiare.



Giunti a casa appare ovvio che il papà abbia traslocato da poco, in corridoio c’è ancora uno scatolone con della roba da sistemare e tutt’intorno aleggia quella calma piatta tipica di un insediamento recente. Leon va alla sua nuova cameretta, apre la porta e si guarda attentamente intorno con i piedi ancora fissi sull’uscio, poi accenna un sorriso ed entra. Quella che ha davanti è la perfetta riproduzione della camera da letto della casa materna in cui ha sempre dormito, giocato e disegnato, insomma, la sua stanza, tant’è che il bambino non esita a togliersi zaino e giubbino e a sistemare i pennarelli sulla scrivania come è solito fare.


Lo spot s’intitola “Every other week” (“Ogni altra settimana”) e appartiene alla campagna “Where life happens” (“Dove ha luogo la vita”) ideata dalla nota azienda svedese per pubblicizzare i suoi prodotti attraverso episodi di vita quotidiana.
In questo caso Ikea decide di raccontare la storia di una giovane coppia di separati con un figlio da crescere a “settimane alterne” e lo fa attraverso poche semplici immagini: l’incontro tra gli ex partner, il borsone pronto ai piedi del bambino, il viaggio in macchina verso la casa del padre e l’approdo in una nuova cameretta. Scena dopo scena entriamo nelle vite dei personaggi, leggiamo le loro emozioni, immaginiamo i loro pensieri, e apprendiamo i loro nuovi rituali. Perché la separazione, una delle più frequenti crisi del ciclo di vita di un individuo, è innanzitutto un cambiamento e in quanto tale tende a spazzare via la nota e cara routine per fare spazio alla sconosciuta e a volte ostica novità.
La famiglia, quindi, è chiamata a modificare le proprie abitudini per far fronte alle nuove esigenze, dal mettere un coperto in meno a tavola alla divisione dei weekend o delle festività (Natale con la mamma, Capodanno col papà).

Cambia anche la definizione stessa di famiglia, ma non la sua essenza. Separandosi l’uomo e la donna smettono di essere una coppia, non di essere genitori, anche se spesso la rabbia o la delusione dei due partner possono avere la meglio sui bisogni di un figlio, mettendoli in secondo piano, se non addirittura dimenticandoli. In questo spot accade l’esatto contrario. La madre apre la porta all’uomo e non si oppone al fatto che il figlio passi del tempo con lui, e quest’ultimo, a sua volta, riproduce la sua cameretta nei minimi dettagli pur di far sentire il bambino “a casa”.  Perché se gli ex non possono tornare indietro per ristabilire l’unione amorosa possono di certo andare avanti e ristabilire un’unione familiare, nel rispetto del figlio, quel frutto che, nonostante tutto, continua ad esistere.

Dott.ssa Federica Giglio
Laureta in Psicologia e tirocinante alla Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara

lunedì 10 ottobre 2016

L'ABBRACCIO

Quanti significati sono celati dietro un abbraccio?


Che cos'è un abbraccio se non comunicare, condividere e infondere qualcosa di sé ad un'altra persona? 

Un abbraccio è esprimere la propria esistenza a chi ci sta accanto, qualsiasi cosa accada, nella gioia che nel dolore. 

Esistono molti tipi di abbracci, ma i più veri ed i più profondi sono quelli che trasmettono i nostri sentimenti. 

A volte un abbraccio, quando il respiro e il battito del cuore diventano tutt'uno, fissa quell'istante magico nell'eterno.  

Altre volte ancora un abbraccio, se silenzioso, fa vibrare l'anima e rivela ciò che ancora non si sa o si ha paura di sapere. 

Ma il più delle volte un abbraccio è staccare un pezzettino di sé per donarlo all'altro affinché possa continuare il proprio cammino meno solo.


 Pablo Neruda  


venerdì 23 settembre 2016

COSA ACCADE NELLA COPPIA DOPO LA NASCITA DEL PRIMO FIGLIO?


Diventare genitori costituisce una tappa fondamentale della vita di coppia. La relazione tra i due partner, che prima li coinvolgeva in maniera esclusiva, ora deve essere condivisa con una terza persona, il bambino, con tutte le sue esigenze e i suoi bisogni.


Questa transizione può essere vissuta in modo più o meno critico e può portare con sé ansie e preoccupazioni.
Una dinamica importante che emerge con la nascita del primo figlio è la ristrutturazione della propria identità individuale e di quella di coppia. I partner diventano genitori e devono confrontarsi con i compiti e le mansioni che questo comporta. Non si è più soltanto individuo in relazione all’altro membro della coppia ma si diventa mamma e papà, responsabili di una terza persona che per molto tempo dipenderà in tutto e per tutto dalle cure genitoriali.
Dedicare gran parte del tempo al nuovo arrivato potrebbe portare a perdere di vista ciò che fino a quel momento era l’intimità della coppia: il tempo prima dedicato al rapporto a due, ora è impiegato principalmente per il bambino e gli spazi di coppia acquistano una connotazione completamente diversa, fatta di biberon tutine e bavaglini.
In alcuni casi può svilupparsi un attaccamento eccessivo della madre verso il bambino, cosa che potrebbe portarla a trascurare il partner, facendolo sentire estromesso dalla nuova relazione madre-figlio, con conseguenti insoddisfazioni affettive e risentimenti che si ripercuotono all’interno del rapporto di coppia.
Tuttavia è possibile far sì che un momento così tanto atteso, come quello dell’arrivo del primo figlio, non si trasformi in un momento particolarmente difficile e critico per la coppia?
Sicuramente i cambiamenti apportati dall’arrivo del primo figlio nel nucleo familiare sono causa e fonte di stress e di preoccupazione, ma trovare un buon equilibrio di coppia prima della nascita di un figlio potrebbe essere un ottimo modo per prevenire sviluppi critici dopo la sua nascita.  Ad esempio riflettere sulle motivazioni per cui si desidera un figlio è un buon punto di partenza. Non si può infatti pensare che un figlio risolva eventuali problemi all'interno della coppia, né che andrà a riempire vuoti affettivi individuali. Quando un bimbo viene al mondo è già caricato di una serie di aspettative e desideri che lo riguardano,  investirlo di responsabilità di cui non può farsi carico piuttosto che affrontare i problemi preesistenti sarebbe ingiusto sia nei suoi confronti sia nei confronti di se stessi e del proprio partner.


È fondamentale, inoltre, non perdere di vista la coppia. Un maggiore investimento di tempo ed energie sul nuovo arrivato è fisiologico, ma è importantissimo mantenere un dialogo costante con il proprio partner, confidargli paure e desideri e coltivare i propri momenti e i propri spazi di coppia, in cui il bambino non sia presente o lo sia soltanto in modo marginale.

Solo così entrambi i partner potranno sentirsi coinvolti reciprocamente nel processo di allargamento della famiglia, con tutte le difficoltà e le conquiste che essa comporta e contemporaneamente continuare a sentirsi coppia e mantenere a la propria intimità. 
Dott.ssa Angela Liberali

Laureata in Psicologia e tirocinante presso la 
Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara