martedì 30 settembre 2014

TRA FANTASIA E REALTA'

MAMMA, MI LEGGI UNA FAVOLA?


La favola che spesso il genitore legge al proprio figlio prima della “messa a letto” ha origini molto lontane: si tratta di racconti tramandati per secoli e per intere generazioni da narratori itineranti, esistenti ancor prima della nascita di Cristo, ed oggi sostituiti dalle figure genitoriali, per lo più la madre, e/o dai nonni. Alla narrazione è stato sempre attribuito un valore educativo di fondamentale importanza, essendo l’unico strumento a disposizione delle civiltà per divulgare la propria storia, le proprie tradizioni ed i propri miti. Non si tratta di racconti esclusivamente di tipo storico: sono spesso delle storie fantastiche che attraverso i loro personaggi e le loro avventure/disavventure ripropongono le caratteristiche della personalità, i vizi e le virtù degli uomini in un modo puramente fantastico, arricchendo così l’immaginario ed il mondo interiore dei piccoli ascoltatori. Il bambino viene, così,trasportato in un mondo “altro”, diverso da quello fisico quale la cameretta, ma dove ritrova le proprie difficoltà, i propri ostacoli e le proprie risorse.
La narrazione non è solo uno strumento educativo, è anche una modalità comunicativa fra la madre/narratore ed il bambino/ascoltatore, una sorta di canale attraverso cui trapassano le emozioni ed i sentimenti che caratterizzano la loro relazione affettiva e nella quale non vi è un “altro” giudicante ma un altro di cui il bambino può fidarsi ed affidarsi nel momento del bisogno. Tutto ciò permette al genitore di conoscere meglio il proprio figlio, il suo modo di pensare, di agire, i suoi bisogni più profondi.
Ogni favola inizia con il suo “… C’era una volta…”: i personaggi, gli eventi, le difficoltà, le sconfitte e le vittorie iniziano a prendere forma ed assumono le caratteristiche della realtà a cui il bambino partecipa attraverso il dispiegarsi di quattro fasi che richiamano i quattro tempi di una sinfonia. E’ nella creatività che il bambino riesce a trovare “l’arma vincente” per far proprie le sue azioni, i suoi comportamenti: identificandosi con i personaggi e le loro vicende, il bambino acquisirà una maggiore stima in se stesso poiché anche lui, come il suo eroe preferito, sarà capace di superare ogni ostacolo che incontrerà nel suo percorso di crescita. D’altra parte, riconoscerà in quegli stessi personaggi ed in quelle stesse vicende le proprie ansie, paure ed angosce e tutto ciò che caratterizza la vita di quel personaggio è esattamente ciò che vive il bambino.
La funzione principale di questi racconti, dunque, è quello di colmare temporaneamente nel piccolo lettore quelle lacune derivanti dalle poche esperienze vissute e permette al piccolo di meglio gestire il proprio mondo emotivo, scisso fra tendenze cattive e tendenze buone, pensieri distruttivi e/o aggressivi: il bambino deve riuscire ad accettare come propri e come assolutamente normali questi sentimenti.  Così, ciò che il bambino ha appreso potrà essere utilizzato nella vita quotidiana dinnanzi agli eventi negativi della vita.
Il bambino non vivrà mai una vita “tutta rosa e fiori”, come vorrebbe e desidererebbe il genitore: egli deve imparare a destreggiarsi di fronte agli ostacoli rispetto ai quali dovrà essere preparato. Identificandosi con il personaggio buono (l’eroe) il bambino comprende che le difficoltà sono del tutto normali nel suo percorso di crescita e che riuscirà a superarle. “..E vissero tutti felici e contenti..”: non rappresenta soltanto il finale tanto atteso di quella storia ma rassicura il bambino sul lieto fine della sua stessa vita. Inoltre, è molto forte l’impulso morale che il bambino riceve dall’ascolto di questi racconti. Le fiabe fungono da esempio di “come va la vita”: il bene che sconfigge ogni male, l’amore che prevale sull’odio e tutto rappresenta la progressione del bambino nel suo percorso di crescita, anticipando vissuti e favorendo lo sviluppo della personalità, del carattere e dei loro valori. Anche il genitore che legge le favole riesce a “semplificare” il suo ruolo educativo in quanto riesce ad impartire al proprio figlio le giuste regole della vita senza usare l’imposizione.
Quali favole raccontare ai bambini e, soprattutto, a che età??
Per alcuni autori del XXI secolo, i racconti di favole erano ritenuti dannosi in quanto “riempivano la testa dei bambini con nozioni confuse di eventi meravigliosi e sovrannaturali”. Un tempo, questi racconti erano presentati ai bambini come delle possibilità della vita reale. Non c’è un’età ideale per raccontare le fiabe ai propri figli! Esse pongono il bambino di fronte ai principali problemi umani (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte) “rendendoli semplicemente alla sua portata”.
E’ importante ascoltare i bisogni dei bambini: se la storia non gli interessa o lo annoia vorrà dire che il tema affrontato in quella fiaba non è significativo per il particolare momento della sua vita. Quando avrà preso tutto ciò che la favola gli può offrire oppure i problemi sono stati superati, richiederà egli stesso una seconda fiaba. E’ importante, dunque, seguire l’interesse del bambino, non guidarlo: il genitore deve appassionarsi alla storia raccontata come se fosse la favorita di entrambi e i pensieri del bambino devono essere ignoti così da esplicitarli attraverso la favola:
solo affrontando le sfide della vita e superandole essi potranno arrivare alla propria indipendenza e realizzazione, così come l’eroe ottiene il suo regno e la felicità dopo aver vinto le battaglie che si presentano durante il cammino.

Dott.ssa Emma Avena


Laureata in Psicologia presso l’Università “G. D’Annunzio” di Chieti e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara 

lunedì 29 settembre 2014

COS'E' L'INTELLIGENZA EMOTIVA?

L’INTELLIGENZA EMOTIVA NELL’AMBIENTE LAVORATIVO E LA SINDROME DEL BURNOUT.
                                                
                                                                                                               
L’intelligenza emotiva è definita come la capacità di riconoscere i nostri sentimenti e quelli degli altri, di motivare noi stessi e di gestire positivamente le nostre emozioni, tanto interiormente quanto nelle relazioni sociali.
La vita mentale dell’uomo è costituita da due modalità di conoscenza che interagiscono tra di loro: la mente razionale, caratterizzata da una modalità di comprensione cosciente e consapevole che ci permette di ponderare e di riflettere, e la mente emozionale, impulsiva e illogica.
L’influenza delle emozioni sulla mente razionale è spiegabile con l’evoluzione del cervello umano. Le basi anatomiche delle emozioni si possono rintracciare nelle strutture più primitive, il tronco cerebrale, da cui poi si sono evolute le aree del cervello pensante: la neocorteccia. Le aree emozionali quindi, sono collegate a tutte le aree della neocorteccia influenzandole, ragion per cui le emozioni sono il costante sottofondo delle esperienze quotidiane.
L’intelligenza emotiva è strettamente associata alla competenza personale e a quella sociale. La prima determina il modo in cui controlliamo noi stessi e si basa su alcune caratteristiche:
- consapevolezza di sé, cioè la capacità di riconoscere i nostri stati interiori. Comporta l’auto-valutazione accurata delle proprie abilità, dei propri punti di debolezza e la fiducia in sé stessi riconoscendo il proprio valore e le proprie capacità.
- padronanza di sé che si esprime nell’autocontrollo degli impulsi e dei sentimenti per gestire situazioni stressanti e angosciose che si traduce nell’acquisizione di un atteggiamento flessibile nelle varie circostanze.
-motivazione, ultima abilità della competenza personale, è caratterizzata dall’insieme delle tendenze emotive che guidano e sostengono la realizzazione degli obiettivi.
 La competenza sociale è il fattore che determina la gestione delle relazioni interpersonali la cui base è costituita da
-empatia, cioè la capacità di comprendere  lo stato d’animo altrui
-abilità sociali intese come la capacità di saper guidare le emozioni di altre persone attraverso l’uso di tattiche persuasive efficienti veicolate da una comunicazione chiara e convincente.
Queste abilità sono particolarmente importanti e particolarmente richieste nell’ambito lavorativo in cui bisogna sviluppare anche capacità per negoziare e gestire situazioni di disaccordo, collaborazione  e cooperazione per il raggiungimento di obiettivi comuni.  Le capacità intellettuali e tecniche seppur rappresentano i requisiti di base non garantiscono il raggiungimento di risultati ottimali, quando infatti in una organizzazione manca l’intelligenza emotiva si realizza il fenomeno del burnout definito come sindrome di esaurimento emotivo, depersonalizzazione e derealizzazione personale. Il sentimento di essere emotivamente svuotato e annullato dal proprio lavoro, una sorta di inaridimento emotivo, si ripercuote sull’allontanamento e sul rifiuto nei confronti di coloro che ricevono o richiedono la prestazione professionale. Il fenomeno è più frequente in tutte quelle professioni che richiedono un’elevata implicazione relazionale e le cause comuni sono riconducibili all’organizzazione disfunzionale, la scarsa o inadeguata retribuzione, sovraccarichi di lavoro, insufficiente autonomia decisionale. Il burnout è una sindrome vera e propria caratterizzata da sintomi che investono la sfera somatica, ulcere, cefalee, disturbi cardiovascolari e la sfera psicologica, umore depresso bassa stima di sé, senso di colpa, irritabilità, coinvolge cioè  il mondo emozionale della persona.
Solitamente l’insorgenza del fenomeno segue 4 fasi:
1)ENTUSIASMO IDEALISTICO che dipende dalle motivazioni consapevoli, inconsce e dalle aspettative che hanno indotto gli operatori a scegliere quel tipo di lavoro.
2)STAGNAZIONE, il super-investimento iniziale lascia il posto ad un graduale disimpegno dovuto al fatto che il lavoro non soddisfa i bisogni del lavoratore e la profonda delusione determina la chiusura verso l’ambiente e i colleghi.
3)FRUSTRAZIONE a causa della profonda sensazione di inutilità per non essere in grado di rispondere ai reali bisogni dell’utenza. L’operatore vive un senso di perdita , svuotamento e crisi delle emozioni e della creatività.
4)APATIA che caratterizza la vera e propria morte professionale.
La visione distorta secondo cui le professioni d’aiuto fanno beneficenza, ha contribuito allo sviluppo di un forte spirito salvifico e sentimenti di onnipotenza nei confronti degli utenti che in automatico assumono lo status di ”rappresentanti della malattia” e quindi uno stato d’inferiorità. Tutto ciò porta l’operatore a trascurare inconsapevolmente i propri bisogni e motivazioni con conseguenti sentimenti di disagio e impotenza. C’è da dire inoltre che il burn-out non è affatto un problema personale che riguarda solo chi ne è affetto, ma coinvolge l’intera organizzazione dei servizi, degli utenti della comunità.
L’intelligenza emotiva quindi, gioca un ruolo fondamentale perché permette di contattare le proprie emozioni per affrontare in modo efficace e ottimale le difficoltà della vita, permettendo di sviluppare la propria personalità in modo flessibile e creativo.  Tutto ciò all’interno della relazione consente all’operatore di essere empatico e sensibile alle reali esigenze dell’utente. Nel burnout   esiste quindi la difficoltà a misurarsi con le proprie emozioni e quindi con il riconoscimento del problema, con conseguente sentimento di rassegnazione rispetto alla vita.

Occorre provare ad ascoltare, a guardarsi dentro, a recuperare la propria motivazione e la capacità di alimentare i propri desideri.

Dott.ssa Manuela Fersini

Laureata in Psicologia resso l'Università "G. D'Annunzio" di Chieti e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara.

sabato 27 settembre 2014

È IN ARRIVO UN FRATELLINO!

COSA SUCCEDE IN UNA FAMIGLIA QUANDO È IN ARRIVO UN ALTRO BAMBINO?



L’arrivo di un fratellino, o di una sorellina, rappresenta sempre un cambiamento nell’equilibrio di una famiglia. Questa alterazione coinvolge tutti, arrivando a coinvolgere i parenti più prossimi (nonni, zii, cugini…). Per il primo figlio è sempre un’esperienza contrastante, difficile da accettare e, in alcuni casi, traumatica. L’arrivo di un fratellino mina la sicurezza del bambino; è una minaccia di perdere abitudini, attenzioni e tutte le cose del suo quotidiano così come le conosce.

Prepararsi al grande evento
È sempre meglio che il bambino sia preparato all’arrivo del fratellino. A questo scopo durante la gravidanza è consigliabile iniziare a parlare con serenità dell’argomento di tanto in tanto, senza però farla diventare un’ossessione.
Per permettere al bambino di abituarsi all’idea può essere utile fargli incontrare dei neonati, portarlo con sé da un’amica che ha un figlio piccolo, leggere dei libri che trattano questo tema, coinvolgerlo nella preparazione del corredino o della cameretta.
La scoperta di un fratellino in arrivo è per il primogenito un’esperienza particolare, che molto dipende dall’età: prima dei 18 mesi i bambini non hanno ricordi consci (“amnesia infantile”), l’effetto di questa fase è l’impressione di aver sempre vissuto con un fratello o una sorella.
La prima paura, all’annuncio dell’arrivo di un altro bambino, sarà per il lui quella di non poter più essere amato come prima. Avrà bisogno di essere rassicurato dell’amore di mamma e papà per sentirsi meno ansioso e sopportare l’idea del nuovo arrivo, del quale istintivamente sarà geloso. Può essere utile, a questo fine, rivivere insieme i ricordi di quando era piccolo, riguardare le foto di quando è nato, spiegando così cosa sta accadendo nella pancia della mamma.
Nel caso in cui con l’arrivo del neonato il primo figlio dovrà cambiare stanza, è preferibile farlo un po’ di tempo prima così da permettere al bambino di abituarsi al cambiamento e interpretarlo come un segno del fatto che “è diventato grande” e non come un’invasione di campo del fratellino.

Come cambia la famiglia: diventare grandi
Le interazioni e le dinamiche affettive all’interno della famiglia si moltiplicano e si complicano: dalla triade mamma-papà-figlio si passa a doversi relazionare tra fratelli e tra questi e i genitori.
Avere dei fratelli o sorelle con cui poter interagire è una tappa fondamentale della crescita in cui i bambini imparano a rapportarsi con i loro coetanei. I fratelli litigano, si appoggiano, si aiutano, si imitano tra loro, imparano a cooperare, a negoziare, a competere e a creare un legame affettivo.  Tutto questo si struttura nel tempo. Lo scoppio della gelosia del primo figlio verso il nuovo arrivato, che lo ha spodestato dell’amore assoluto di mamma e papà, è invece da subito evidente.
Spesso i genitori si aspettano che il primogenito possa accogliere positivamente e con entusiasmo il fratellino, commettendo l’errore di considerarlo automaticamente “più grande”. Al figlio maggiore, che fino a poco tempo prima era considerato il piccolo di casa, viene ora chiesto di comportarsi da grande e di essere autonomo in alcune operazioni in cui prima veniva aiutato (ad es. spogliarsi e vestirsi, lavarsi i denti). Questo cambiamento può disorientare il bambino il quale potrebbe avere difficoltà a fronteggiare le nuove richieste dei genitori. I rimproveri e la disapprovazione da parte di mamma e papà possono accentuare il disorientamento e la sensazione di aver perso il loro amore. Queste sensazioni spingono il bambino a pensare che la strategia per mantenere l’attenzione dei genitori sia “ritornare piccolo”, proprio come il fratellino. In alcuni casi, il bambino rifiuta drasticamente l’imposizione del cambiamento manifestando la propria sofferenza attraverso l’interruzione della crescita.
Con la nascita di un fratellino i genitori si trovano a dover prestare molte attenzioni al nuovo nato. Il bambino, fino a quel momento è figlio unico e come tale è posto al centro dell’attenzione, destinatario esclusivo delle cure di mamma e papà. In questa fase, il bambino conosce l’esperienza della privazione (mancata soddisfazione di un bisogno ritenuto indispensabile). È molto importante aiutarlo a ridefinire un equilibrio, trascorrendo del tempo in più con lui, aiutandolo ad attenuare la sensazione di aver perso le coccole dei genitori e fornendo rassicurazione sul fatto che l’amore per lui non è cambiato.

La gelosia
La manifestazione di gelosia, in questa fase critica dello sviluppo del bambino, non è da considerarsi negativa, e per questo non è da reprimere e condannare.
La gelosia rappresenta una reazione alla perdita dell’esclusività del rapporto con le persone amate e della loro disponibilità affettiva. Il bambino rifiuta di dover dividere con un intruso l’affetto dei genitori, pretendendo di bastare affettivamente all’altro. La frase tipica che viene rivolta ai genitori è: perché mi hai fatto un fratellino? Non ti bastavo io?”.
I bambini più grandi, di 3 o 4 anni,  che hanno una capacità di pensiero già ben formata, adottano la strategia di diventare piccoli come il nuovo arrivato per conservare l’amore dei genitori. La gelosia si esprime allora attraverso atteggiamenti regressivi  o aggressivi. Il primogenito può diventare nervoso, irritabile, iperattivo. In alcuni casi possono esserci manifestazioni di regressione più preoccupanti: pretende di bere con il biberon, vuole attaccarsi al seno, soffre di enuresi notturna (pipì a letto), chiede che gli si metta il pannolino, presenta ansia da separazione.
I genitori possono svolgere un ruolo determinante nel superamento della gelosia.
Innanzitutto, è positivo lasciare libero sfogo alle emozioni, anche se si tratta di gelosia. Continuare a vivere tutti insieme momenti sereni aiuterà il bambino a superare la paura dell’abbandono e di non essere più amato. Il fratellino pian piano non sarà più avvertito come una minaccia e il bambino imparerà che, seppure non più esclusivo, l’amore dei genitori non è perso.
Un’ottima alleata del bambino è l’immaginazione. Fantasie distruttive sul fratellino permettono di scaricare ed esprimere la rabbia e l’aggressività scoprendo tuttavia che la realtà non verrà mutata.
Con lo sviluppo della capacità di identificazione il bambino imparerà a mettersi nei panni degli altri, provandone stati d’animo e vissuti. Potrà identificarsi nel fratello per averne i privilegi oppure nella mamma sentendosi gratificato nel fornire cure.
Infine, la condivisione di spazi e ambienti comuni, oltre a dar vita a degli scontri, farà nascere il senso di appartenenza: il fratellino  pian piano non sarà più un intruso.
È molto più preoccupante un bambino indifferente, piuttosto che un bambino geloso.

“La gelosia è normale e salutare, nasce dal fatto che i bambini si amano, se non sono capaci di amore, non dimostrano nemmeno gelosia”.
Winnicott

Dott.ssa Rossella Scelza
Laureata in Psicologia presso "La Sapienza" di Roma e Tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus


Riferimenti bibliografici:
-         Fratelli e sorelle. Una malattia d’amore. Manuel Rufo
-         L’arrivo di un fratellino…cosa accade? Dott.ssa M.R.Aloisio
-         Educare.it da “Il Grillo parlante”, Anno II, n.9 (1999)


venerdì 26 settembre 2014

IL RUOLO DEL PADRE

Paternità: istinto o apprendimento 

sociale?


Nonostante il suo ruolo sia di fondamentale importanza, il padre ha ricevuto, per molto tempo, scarsa attenzione nell’ambito della letteratura e della ricerca contemporanea, tanto da essere definito “il genitore dimenticato” dalla teoria psicoanalitica. Diverso è stato per la madre, la quale per forza di cose ha permesso questo spostamento sullo sfondo della figura paterna per modalità tempi e sensazioni che si vanno a sviluppare durante la gravidanza.
Alcuni dati osservativi dimostrano che già a quattro settimane dalla nascita i neonati sono in grado di distinguere le qualità sensoriali del padre e della madre e di interagire conseguentemente. 
Resta scontato però, che il primo rapporto che si instaura tra neonato e genitori è quello con la mamma. Non a caso è lei a nutrirlo dal suo seno, è lei che, nella maggior parte dei casi, lo accudisce e gli cambia il pannolino. Il padre ha un ruolo di supporto a tutto questo durante la prima fase della vita del bambino, e questo lo far può apparire marginale e secondario.
Oggi si assiste sempre di più ad un precoce coinvolgimento del papà nell’esistenza del neonato e ciò può portare dei benefici tanto al bambino stesso quanto alla mamma. Molto spesso capita che il papà abbia poco tempo da trascorrere in casa e, di conseguenza, da dedicare al piccolo arrivato. Tuttavia, anche una limitata disponibilità è sufficiente per abituare il figlio alla sua presenza.
La mamma, grazie alla gravidanza, ha nove mesi di tempo per adattarsi alla nuova situazione: sente il movimento del bambino dentro la sua pancia, parla con lui, può toccarlo e coccolarlo. Per la mamma la coppia diventa famiglia sin dalla gravidanza, per lei è come se il bambino fosse già lì, come se avesse già trovato il suo posto e il suo spazio all’interno della coppia.

Per i papà la gravidanza è un passaggio più difficile da accettare, che dura nove mesi durante i quali egli può entrare in contatto con il bambino solo attraverso la mediazione della mamma e del suo pancione. Può dunque capitare che, alla nascita del piccolo, il neo papà si senta abbattuto e impaurito. Abitudini del sonno e della giornata modificate, difficoltà legate alla gestione quotidiana del neonato, il crescente carico di responsabilità e il timore che la propria compagna ceda la sua parte di “donna” al suo ruolo di mamma sono tutti elementi che fanno sì che il papà possa sentirsi a volte sopraffatto dagli eventi al punto da perdere il controllo delle priorità e chiudersi in un angolo in attesa di essere interpellato.
L’arrivo di un bambino può determinare nel papà un contrasto di sentimenti differenti. Ad esempio, è facile che provi una sorta di gelosia dovuta alla constatazione che egli non occupa più il posto privilegiato nel cuore della moglie la quale, in ogni caso, è intenta a riversare sul neonato buona parte delle sue premure. Nello stesso tempo, egli avverte un sentimento ambivalente nei confronti del figlio, in quanto, da un lato si sente escluso da alcune interazioni con lui che sono spesso riservate solo alla madre, e dall’altro il fastidio, ossia la rabbia, per il confronto continuo che si pone tra lui e la sua compagna, privilegiata in determinate funzioni.
Nei primi tempi, quando madre e figlio sono impegnati nella conoscenza e nell’adattamento reciproco, il papà può diventare l’aiuto ideale: ad esempio, al momento di addormentare il piccolo o l’essere vicino durante il cambio del pannolino. Il contatto con il corpo paterno, inoltre, farà abituare il bambino all’esistenza di altre braccia che non siano quelle della sola madre e gli permetterà di imparare a distinguere meglio la figura materna da quella paterna ed, in seguito, da quelle di tutte le altre persone con le quali il piccolo entrerà in contatto.
È ormai certo che gli uomini della società odierna stanno elaborando una diversa competenza genitoriale rispetto a quella di un  tempo. Oggi, infatti, tale competenza sembra affiancarsi sempre di più a quella materna in quanto si occupano anche delle cure primarie assieme alla madre, come allattamento con il biberon, cambio del pannolino, bagnetto. Un tempo la donna aveva il compito di mettere “al” mondo il figlio e il padre quello di metterlo “nel” mondo, di insegnarli a vivere nella società, le regole sociali e i valori. Il padre era la figura forte che proteggeva il figlio e lo accompagnava nel mondo insegnandoli a vivere e ad adattarsi alle richieste sociali.
Oggi, la società ha subito forti cambiamenti e nonostante si cerchi di equilibrare i ruoli genitoriali, i padri hanno ancora forti difficoltà a trovare il loro posto da subito.
 La paternità, dunque, può essere considerata un istinto o un apprendimento sociale? La letteratura si è interrogata negli ultimi anni sulla possibilità che esista uno specifico istinto paterno uguale a quello materno. Dunque, la paternità si attiva nell’esperienza di divenire padre o si può pensare che esiste una predisposizione innata ad assumere tale ruolo e funzione?
Greenberg e Morris (1974) hanno dimostrato in alcune ricerche che nell’uomo l’engrossment, ovvero l’occuparsi interamente di qualcuno, l’essere assorbiti, preoccupati e interessati, va considerato un potenziale innato che si attiva con l’esperienza di diventare genitori ma che ha anche inevitabilmente un’interazione con gli aspetti culturali dell’ambiente e della società. Allo stesso modo, Forleo e Zanetti (1987) sostengono che, sia nel maschio che nella femmina, sia presente una predisposizione ad assumere comportamenti di cura nei confronti dei figli ma il condizionamento sociale e culturale devia spesso tale atteggiamento nell’uomo verso altre modalità di interazione, più desiderabili ed accettabili dall’ambiente.
Al contrario, secondo Erich Fromm (1956) nella paternità non esiste nulla di istintivo se non un “rapporto spirituale”. Dunque, l’amore paterno, a differenza di quello materno, sarebbe condizionato dall’appagamento delle  proprie aspirazioni.
Sembra utile, pertanto, fare una distinzione tra il concetto di ruolo e quello di funzione genitoriale e, nello specifico, paterna. Il ruolo è definito da un contesto sociale e culturale, è ciò che il padre sente di dover fare, è la sua risposta emotiva ai bisogni del figlio e la disposizione interiore precedente all’esperienza. La funzione paterna, invece, è precedente all’esperienza e al ruolo, anche se normalmente si attiva in ambedue. Nei primi anni di vita del bambino, ma non solo, il padre riveste effettivamente un’importante funzione: egli sostiene la relazione madre-bambino proprio grazie al suo modo di essere presente nella famiglia e può essere definito il regolatore della relazione empatica.
Concludendo, il padre non è semplicemente la luce che illumina la diade madre-bambino, ma è insieme a loro l’essenza di un quadro in cui ogni singola parte ha senso solo in relazione alle altre.
Dott.ssa Serena Sanzari

Laureata in Psicologia presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti e Tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara.