domenica 14 dicembre 2014

ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE





Diverse sono le teorie che hanno cercato di spiegare l’apprendimento del bambino nei primissimi anni di vita e in particolar modo lo sviluppo del linguaggio. Piaget, nella sua Teoria degli Stadi Cognitivi, sostiene che gli sviluppi cognitivo e linguistico passano attraverso una serie di stadi universali e invarianti e sono indipendenti dall’interazione sociale con l’adulto di riferimento.
Bruner ipotizza una base innata per il linguaggio dove adulti e contesto sociale agiscono da sistemi di supporto cosi da favorire l’ingresso del bambino nella cultura di appartenenza e nel mondo del linguaggio.
Vygotsky sostiene, a differenza di Piaget, che lo sviluppo linguistico-cognitivo del bambino sia correlato alla quantità e alla qualità delle interazioni sociali con l’adulto. Concetto fondamentale nella sua Teoria Socioculturale è quello di Zona di Sviluppo Prossimale(zdsp) intesa come la distanza tra il livello attuale di sviluppo, cosi come determinato dal problemsolving autonomo, e il livello più alto di sviluppo potenziale, cosi come è determinato attraverso il problemsolving sotto la guida di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci (vedi video consigliato alla fine del testo per un esempio pratico di zdsp).
Una dimostrazione di zdsp è l’episodio di rievocazione dove l’adulto aiuta il bambino a ricordare esperienze precedentemente vissute fornendo suggerimenti e accenni. L’apprendimento all’interno della zdsp è possibile in parte grazie all’esistenza dell’intersoggettivitàovvero un modo comune di vedere le cose che si basa sull’esistenza di un punto su cui concentrare l’attenzione e una meta che il bambino e la persona più competente condividono tra loro. Le persone esperte quindi , gli adulti o coetanei più capaci, sostengono temporaneamente le abilità emergenti del bambino per poi lasciare che faccia da sé.
Ritorniamo al linguaggio e alle sue varie fasi di sviluppo. Il bambino per imparare ad utilizzare il linguaggio deve compiere varie operazioni preliminari tra cui: segmentare i suoni linguistici che ascolta, ampliare il vocabolario, padroneggiare le regole morfo-sintattiche della propria lingua ecc. Per poter eseguire tutto ciò ha ovviamente bisogno di assistenza, di un aiuto che solo un adulto o una persona più capace può dargli. Quindi senza una zona di sviluppo prossimale, ovvero uno spazio di interazione bambino-adulto, lo sviluppo linguistico, cosi come quello cognitivo-comportamentale non potrebbero avere luogo.
Ma come avviene lo sviluppo comunicativo-comportamentale nei bambini con sviluppo atipico?
Prendiamo ad esempio i bambini affetti da sindrome di Down. Questi bambini hanno difficoltà nella produzione vocale che compensano con un maggior ricorso all’uso dei gesti. Inizialmente il ricorso alla produzione vocale e ai gesti è equilibrato e simile a quello dei bambini con sviluppo tipico; con l’andare avanti dell’età però la produzione vocale diviene scarsa e meno frequente e si associa a un uso più massiccio di gesti. L’adulto in questo caso punterà sui comportamenti manifesti nei momenti di attenzione condivisa, quindi nei momenti in cui può agire influenzando positivamente il bambino nel raggiungimento di uno scopo (nella zona di sviluppo prossimale appunto). I bambini con autismo non riescono a “sfruttare” i momenti di attenzione condivisa con l’adulto non alternando lo sguardo tra il partner e l’oggetto/evento in questione. Questi bambini inoltre non guardano il volto dell’adulto per capire come comportarsi in una situazione ambigua e in loro è carente la capacità di usare l’intenzione dichiarativa ovvero non riescono a usare un gesto comunicativo, come può essere il semplice gesto di indicare, per attirare l’attenzione dell’adulto verso un oggetto o un evento esterno alla diade.
Sono state diverse le ricerche che hanno indagato su come i genitori di bambini con sviluppo atipico dialogassero con questi ultimi. L’obiettivo comune di queste ricerche era rispondere al seguente quesito: l’esperienza linguistica di cui usufruiscono i bambini con sviluppo atipico è uguale a quella che si rileva per i bambini con sviluppo tipico? I genitori dei bambini che presentano disabilità di vario tipo tendono ad essere più direttivi e meno responsivi dei genitori dei bambini con sviluppo tipico. Il genitore vede l’interazione con il proprio bambino come una << seduta didattica >> quindi fa largo uso di ordini e istruzioni. Le madri dei bambini con ritardo mentale utilizzano inoltre un linguaggio più semplice a livello sintattico. Uno studio di Longobardi e Caselli degli anni 90, ha confrontato lo stile comunicativo delle madri di bambini con sindrome di Down con quello delle madri con bambini con sviluppo normale della stessa età linguistica. Le madri di bambini con sindrome di Down indirizzano un numero inferiore di iniziative comunicative ai propri bambini e di conseguenza utilizzano meno frequentemente tutte le funzioni comunicative (tutoria, didattica, etc...). Queste madri non hanno però mostrato una preferenza per uno stile comunicativo direttivo. Uno studio di Nelson e collaboratori ha evidenziato come le madri di bambini con DSL (Disturbo Specifico del Linguaggio) usano meno le espressioni semanticamente collegate agli enunciati del bambino (esempio: il bambino dice “Luca macchina” e la madre risponde “Luca ha la macchina”).
Cross et al. hanno invece confrontato il livello di capacità di comprensione verbale dei bambini sordi e dei bambini udenti. Il campione era composto da un gruppo di bambini sordi di cinque anni di età (1) , un gruppo i bambini sordi di due anni di età (2) ed uno di bambini udenti di due anni (3). Si è riscontrato che i bambini del gruppo 1 avevano una capacità di comprensionesimile ai b. del gruppo 3 e che i bambini del gruppo 2 avevano capacità di comprensione simile ai b. di pochi mesi di vita. Le madri dei b. sordi utilizzano un linguaggio molto semplificato essendo consapevoli del deficit dei loro bambini. Per i bambini udenti la modalità più efficace per attivare la loro attenzione è quella verbale, per i b sordi risulta invece essere quella di “segnare” il loro spazio visivo. Uno studio di Anderson sui bambini ciechi ha evidenziato che i genitori: usano più frequentemente frasi imperative e interrogative del tipo si/no; adoperano frequentemente denominazioni e richieste di denominazioni mentre con i bambini vedenti vengono usate delle ricche descrizioni su oggetti presenti nell’ambiente circostante; i genitori di b ciechi raramente includono nei loro discorsi richieste di espansione al bambino ma piuttosto forniscono a quest’ultimo una seriedi etichette verbali. 
In conclusione da questi studi emerge come un input quantitativamente e qualitativamente diverso da quello di cui usufruisce un bambino con sviluppo normale non necessariamente vuol dire peggiore, potrebbe invece rappresentare l’effetto di un processo di adeguamento per creare condizioni più favorevoli per lo sviluppo dei bambini con sviluppo tipico.

Dott. Renato Porcelli

Laureato in Psicologia e tirocinante presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara 



Video Zona di Sviluppo Prossimale: https://www.youtube.com/watch?v=idrwTS4EG-U

martedì 9 dicembre 2014

LA PAZIENZA


Se invitate la gente a dire che cosa le viene in mente pensando alla pazienza, ottenete risposte del genere: << Una donna rassegnata, un bue, una persona anziana che fa passare il tempo >>. Invece, all’impazienza: << Un giovane vivace, un capo che da ordini in modo imperioso, una donna bella e capricciosa >>. Ci sono poi molti che considerano la pazienza e l’impazienza due qualità innate, come sarebbero il colore degli occhi o la lunghezza del naso. Alcuni addirittura si vantano dell’impazienza del marito o della moglie. << Non riesce a star ferma un momento, non sopporta le lungaggini >> dicono, come se fosse una prova di vivacità intellettuale o di forza di carattere. Sono invece convinto che la pazienza sia una virtù fondamentale. E, tanto per cominciare, non è affatto innata. La pazienza si apprende, si costruisce col ferreo esercizio della volontà. Il bambino è impaziente. Se ha fame piange, se non c’è la mamma si dispera. L’adolescente è impaziente, morde il freno per stare qualche ora fermo a scuola. Ma anche il bambino, anche il ragazzo, se vogliono riuscire in uno sport, dal calcio alla pesca, devono subito disciplinare i loro impulsi. Devono imparare a stare immobili, attenti, e poi scattare quando è il momento, né un istante prima, né un istante dopo. Devono ripetere pazientemente centinaia di volte lo stesso gesto per perfezionarlo. Molta gente confonde la pazienza con la pigrizia, il disinteresse, l’apatia. Stati psichici caratterizzati dalla mancanza di energia vitale. Invece la pazienza è la capacità di controllare una grande energia vitale senza farsene travolgere, ma indirizzandola a un fine. Nei momenti difficili della vita noi dobbiamo essere capaci di perseguire tenacemente una meta, di volerla con tutta la forza del nostro animo, eppure dobbiamo anche saper aspettare. Come è più facile dare in escandescenze, sbattere una porta! Difficile è sopportare la prima, la seconda, la terza sconfitta e, ogni volta, ricominciare, ritessere le file, cercando nuove strade, nuove alleanze. Tutte le volte che dobbiamo affrontare una grave prova, come un concorso, un affare, una malattia, ma anche un amore, la vera difficoltà è saper resistere giorni e giorni, mesi e mesi, alla più atroce incertezza. La pazienza, in questi casi, è il nome che diamo al coraggio. Il coraggio è la virtù del cominciamento. La pazienza è la virtù del ricominciamento. Perché deve rinascere ogni mattina, ogni ora, ogni minuto. Per <<tener duro>> bisogna  ricominciare a farlo infinite volte. I giovani, finché sono in famiglia, possono permettersi di essere impazienti, cioè di comportarsi come bambini protetti dai loro genitori. Il momento della verità viene quando incominciano a lavorare. Allora, con stupore, si accorgono che nessuno più corregge le loro intemperanze. E che ogni errore devono pagarlo. E, da quel momento, ogni progresso professionale dipende dalla loro capacità di osservare gli altri, di studiarli, di capirli. Siano essi i colleghi, i clienti o i dirigenti. E anche quando viene il momento di parlare, di dire le proprie ragioni, devono sapersi controllare, agire con prudenza e pazienza. L’impazienza crea sempre panico e disagio attorno a sé e, alla fine, si fa tutti nemici. Il padre padrone che, quando torna a casa, urla ad ogni ritardo, il capoufficio che sbraita con la segretaria, il dirigente che strapazza i suoi collaboratori. Costoro usano l’impazienza come strumento di dispotismo e avvelenano la vita e il lavoro degli altri. Chi vuole riuscire non può permettersi questi capricci. A cominciare dal venditore che deve porsi dal punto di vista del cliente, sempre gentile, sempre paziente. Ma anche il grande manager, se vuole ottenere il consenso dei suoi collaboratori, se vuole motivarli davvero, deve essere pronto ad ascoltarli, a parlare, a spiegare, a giustificare, come fa l’allenatore di una squadra. Deve mettercela tutta, e prodigarsi, prodigarsi; e ne deve avere di pazienza!




Tratto da “L’ottimismo” di Francesco Alberoni. Fabri editori- Corriere della Sera 1995.

domenica 7 dicembre 2014

LA CRISI



Ci sono dei periodi nella nostra vita in cui perdiamo l’abituale sicurezza. Ci sentiamo smarriti, disorientati. Avevamo delle idee chiare, delle certezze. Adesso siamo pieni di dubbi. Non sappiamo più se abbiamo fatto le scelte giuste. Alcuni risultati che ci riempivano di orgoglio, ora ci appaiono privi di valore. Ci vengono in mente tutte le altre strade, quelle che non abbiamo percorso, quelle che hanno seguito gli altri e scopriamo che forse erano meglio della nostra. Proviamo rimorso per chi abbiamo inutilmente fatto soffrire. È un momento di crisi, di smarrimento, di disorientamento, di vuoto. 
Qualcuno può dirci che è un attacco di depressione o di nevrosi. Per farlo passare basta un periodo di vacanza, o un viaggio, o una breve cura. Ma è il caso di combatterlo, di sfuggirlo? Non è invece meglio accettarlo, viverlo,  approfittare dell’insegnamento che ci sta dando? Quando siamo impegnati in un compito non possiamo lasciarci afferrare dal dubbio, avvelenare dalle incertezze. Dobbiamo tener ben ferma la meta e occuparci solo dei mezzi per raggiungerla. 
Dobbiamo convincerci che siamo nel giusto e che possiamo riuscire. D’altra parte quando, seguendo un certo metodo, abbiamo avuto successo, ne facciamo tesoro e continuiamo sulla stessa strada. Se in un ristorante i clienti apprezzano particolarmente certi piatti, il cuoco continuerà a prepararli. Quando un pittore ha scoperto una modalità espressiva in cui si realizza e che piace ai critici, vi si abbandonerà con piacere. Lo scienziato che ha elaborato una teoria cercherà di applicarla a tutti i casi che incontra senza sentire il bisogno di cercarle una alternativa. Col passare del tempo, però, quelle che prima erano modalità per esprimere noi stessi e la nuova creatività, a poco a poco finiscono per diventare abitudini, rituali. Il cuoco si abitua a fare gli stessi piatti in modo meccanico. Non sperimenta più nulla di nuovo. L’artista si ripete, imita se stesso. Lo scienziato applica la sua teoria a fenomeni nuovi e diversi che essa non può spiegare. Prima la sua teoria era uno strumento per conoscere, adesso gli nasconde la realtà. Tutto ciò che facciamo nasce come apertura sul mondo, braccia tese per andare incontro e accogliere. Ma questo movimento, ripetuto infinite volte, diventa un rituale vuoto. Non esprime più noi stessi, non ci collega più con la vita. Ecco perché, periodicamente, abbiamo bisogno di una crisi. Qualche volta questa è la conseguenza di un insuccesso, di un brutale schiaffo che la realtà, troppo a lungo trascurata, dà alle nostre abitudini. Ma altre volte ci rendiamo conto di esserci sclerotizzati, irrigiditi, di essere come morti. Allora può arrivare al vertice del successo. Molti autori sono rimasti insoddisfatti del loro capolavoro. Virgilio voleva addirittura distruggere l’Eneide. Scatta in quel momento il bisogno di vedere il mondo da tutti gli altri punti di vista che noi abbiamo dovuto abbandonare per scegliere il nostro, di trascendere ciò che abbiamo fatto. È un bisogno di novità, di freschezza, di ricominciamento che per realizzarsi deve far piazza pulita di ciò che esiste delle strutture in cui ci siamo realizzati. 
La crisi è il momento iniziale, devastante, di un’opera di risanamento e di ricostruzione. Nella vita psichica non c’è vero progresso senza queste discontinuità in cui riusciamo a mettere in discussione radicale noi stessi, ciò che abbiamo fatto, ciò che vogliamo. Distruggendo i nostri possessi, le nostre certezze, creiamo il caos originario in cui tutto diventa nuovamente pensabile e possibile. Solo allora diventiamo nuovamente capaci di cambiare. Perché siamo diventati leggeri, ingenui e umili. 

Tratto da “L’ottimismo” di Francesco Alberoni. Fabri editori- Corriere della Sera 1995.