sabato 8 giugno 2013

PSICOLOGIA DELLO SPORT

Doping e meccanismi mentali 



Uno sportivo è prima di tutto un uomo, porta dentro di sé un bagaglio di sentimenti che si esprimono su un continuum che va dalla gioia alla rabbia, dalla tristezza alla paura attraversando molteplici emozioni che incidono profondamente sulle prestazioni sportive a cui egli è dedito. Aspettative e incertezze personali accompagnano costantemente l’atleta dai primi momenti della giornata, scortano gli allenamenti e guidano le gare.  Uno sportivo per professione mette in campo il tutto per tutto per dimostrare agli spettatori il proprio valore, ma soprattutto per confermare a se stesso che è possibile mantenere il livello raggiunto e conquistarne uno sempre più alto.
Lo sport collettivo è un modo per rivendicare l’appartenenza ad un gruppo sociale, per usufruire di un sostegno reciproco in quanto cantare in coro permette di mimetizzare le proprie stonature, ma è anche un mezzo a disposizione del singolo atleta per differenziarsi dalla massa. Negli sport individuali, invece, i riflettori sono puntati sul campione sin dal primo minuto della gara evidenziando meriti, défaillance, espressioni del viso. Una scansione del corpo e degli stati d’animo del protagonista che possa dare alla critica esterna argomenti per lodare il buon risultato finale e per scatenare la caccia alle colpe di una eventuale prestazione penalizzante.
Lo stimolo iniziale che spinge verso una carriera sportiva, rappresentato fondamentalmente dal piacere e dal divertimento, corre il rischio di trasformarsi in una sfida alle proprie capacità reali. L’ansia che ne deriva è un termometro che segnala i livelli di autostima, fondamentale elemento per il benessere individuale dell’atleta ed anche per quello di tutta la rete sociale che lo circonda.  
Ciò è vero non solo per lo sport professionistico, ma anche per quello dilettantistico ed amatoriale, che vengono risucchiati da questa logica. L’essenza vera dello sport, fondata sulla fatica quotidiana, sul metodo, sulla collaborazione, sulla conoscenza di se stessi e sul rispetto degli avversari, lascia il passo alla sudditanza nei confronti del “dio successo” che impone traguardi sempre più ardui da raggiungere, che suddivide gli esseri umani in categorie, che innesca un senso di alienazione nelle menti di coloro che manifestano una maggiore fragilità.
Il rischio in situazioni simili di alimentare fenomeni patologici come il doping è molto forte. Per definizione il doping è inteso come "l'uso di quelle sostanze o metodologie che sono state proibite dalle competenti autorità sportive a livello nazionale/internazionale, volto al raggiungimento o mantenimento di una prestazione". L’atleta quindi fa uso di sostanze dopanti nel momento in cui si trova nella condizione di rottura del rapporto ottimale motivazione-mezzi-scopi, quando cioè spinto da agenti esterni, ma ancor più dalla sua motivazione interna, si sente costretto a mantenere le condizioni psico-fisiche estreme, sperimentate fino a quel momento, e non trova in se stesso le risorse adatte a consentirgli di provare autonomamente il senso di gratificazione di cui necessita.
La personalità dello sportivo che ricorre all’uso di sostanze è una componente importantissima per comprendere il fenomeno, infatti alcuni studi hanno dimostrato un basso livello di autostima oltre a una tendenza a ricercare il consenso da parte del gruppo dei pari in un’alta percentuale di sportivi caduti nella rete del doping, caratteristiche tipiche di una personalità dipendente.
Si può infatti parlare di doping e dipendenza, quest’ultima intesa come condizionamento psicologico all’uso di sostanze tossiche fino a non poterne fare a meno. Questo tipo di dipendenza è legata all’immagine corporea che l’atleta si costruisce dal momento in cui comincia ad assumere sostanze. Il suo corpo diventa vigoroso, ha una maggiore resa, è visivamente più definito, il tutto correlato alla percezione che lui ha di determinate sensazioni corporee (maggiore resistenza e potenza, riduzione del dolore) che sono condizioni favorevoli al raggiungimento dei suoi scopi. Diventa chiaro come può risultare poi difficile tornare ad una immagine corporea “ordinaria”.
È una dipendenza psicologica, oltre che fisica, perché queste persone perdono di vista l'importanza fondamentale dell'allenamento, il loro vero scopo diventa quello di battere l'avversario ad ogni costo e con ogni mezzo. Il loro fine quello di vivere per la gara, di trasformarla nell'unica ragione di riscatto dalle proprie angosce della vita quotidiana.
Tra gli "effetti positivi" - se così vogliamo definirli - si ha sicuramente un innalzamento della fiducia in sé, della motivazione di gara, miglioramento della memoria e della concentrazione, ma non sono da sottovalutare quelli collaterali come l’incremento dell'aggressività e dell'irritabilità, sbalzi di umore, insonnia, attacchi di panico, scatti d'ira incontrollata, depressione, pensieri paranoici, comportamenti psicotici e vari disturbi della personalità. Tutto questo incide sulla vita quotidiana, sulle relazioni familiari ed extra-familiari provocando altri tipi di sofferenze.
La lotta contro il doping è spesso concentrata sulla repressione del fenomeno, un’azione necessaria quanto comunque poco efficace ad estirpare il problema. Il punto nodale, infatti, sta nella giusta attivazione di una cultura dello sport che promuova un'immagine dell'atleta caratterizzata dalla capacità di utilizzare al meglio le sue risorse psico-fisiche, di una cultura della “vittoria” che lasci trasparire l’essenza dell’atleta, la sua individualità, la sua capacità di mettersi in discussione e anche l’umiltà di imparare dalla sconfitta.


Dott.ssa Ivana Siena