APPROCCIO E STORIA


Origini e sviluppo delle teorie sistemico-relazionali


La “teoria dei sistemi” connette diversi settori della conoscenza (da quelli scientifico-matematici a quelli umani) e definisce i concetti principali quali sistema, organizzazione sociale e familiare, autoregolazione, causalità circolare, equifinalità, interdipendenza delle parti come portanti della nuova logica di pensiero. Questo approccio nasce dall’esigenza di superare il modello meccanicistico secondo cui ogni individuo compie azioni per effetto di causalità lineari in favore di una lettura delle complessità interazionali (causalità circolare).
Questa nuova tendenza assume un linguaggio scientifico alternativo e si fa portatrice di una prospettiva che guarda al mondo in funzione dell’interdipendenza delle parti. I concetti di interazione e relazione, intesi il primo come la parte del comportamento osservabile nel qui ed ora dagli studiosi sistemici e la seconda come significati che l’individuo consegna all’interazione stessa (quelli più profondi), non sempre osservabile, in cui si esprimono emozioni, motivazioni, aspettative e soggettività, vanno inseriti all’interno di un contesto più ampio: teorie sulla comunicazione umana e pensiero olistico che permettono di avviare nuovi processi conoscitivi basati sull’ampliamento di contesti e lo studio delle trasformazioni all’interno degli insiemi.
Come ben sappiamo gran parte delle teorie sistemiche si fondano sul paradigma Cibernetico.
Il tempo nelle descrizioni della I Cibernetica è concepibile come un ciclo perfetto in cui è possibile invertire ogni mutamento e tornare alla stasi: è quindi importante osservare come un sistema si opporrà al cambiamento e come tale cambiamento sarà annullato.
Il tempo assume il carattere di tempo stocastico, probabilistico, sostanzialmente prevedibile.
Anche la famiglia in questo quadro teorico è vista come sistema che, sottoposto a perturbazione, riporta le sue condizioni più vicine possibili a quelle di partenza. Quindi le teorie fondate “sull’omeostasi familiare” si occupano del tempo presente.
I terapeuti si occupano quindi del cambiamento non come un continuum ma come un passaggio da un fotogramma all’altro, una successione di pattern statici ripetitivi.
Ciò era dovuto all’importanza data al concetto di retroazione negativa ed alla analogia con le macchine calcolatrici di Wiener (i circuiti hanno sempre la possibilità di ripartire da 0, azzerare il tempo trascorso per trasformarsi in tabula rasa).
Il sistema familiare non può rispondere però al modello della macchina che riparte da zero ma conserva una memoria ed una capacità di apprendimento: bisogna però distinguere tra sistemi meccanici e sistemi viventi.
Questa netta distinzione arriva con l’affermarsi della II Cibernetica.       
L’osservatore cerca di cogliere l’interazione tra retroazioni positive e quelle negative: uno stesso evento in uno stesso sistema avrà conseguenze diverse se si verifica in un periodo in cui è  massima la retroazione negativa (massima stabilità), oppure in uno in cui è massima quella positiva (massima instabilità). I terapeuti diventano perciò attenti alla scansione degli interventi ed alla prospettiva in cui inserirli. Il tempo è un utile indicatore di valutazione per il cambiamento, ovvero la progressione evolutiva della famiglia soprattutto dove si è prodotto un blocco nel suo sviluppo. La terapia sistemica ha subito numerosi cambiamenti dal superamento della I Cibernetica. Vediamo, infatti, che in un primo momento l’interesse del terapeuta era incentrato sul presente, mentre il passato era preso in considerazione solo dal momento della comparsa del sintomo in poi. L’indagine ruotava intorno alle relazioni che nell’attualità si creavano intorno al sintomo.
Concentrarsi troppo sul passato implicava però il rischio di costruirsi  spiegazioni lineari – causali del sintomo: esiste una sola realtà possibile e quindi una sequenza di eventi necessari che ha dovuto arrivare al punto che si  vede ora.

La Terapia Familiare




L’ approccio sistemico-relazionale che verrà denominato “terapia familiare” per l’interesse a lavorare con le famiglie, si sviluppa negli USA intorno agli anni ‘50: la famiglia e non l’individuo è l’unità su cui basare la diagnosi e la terapia.

Sollecitati dall’evoluzione socioculturale del dopoguerra e insoddisfatti circa i risultati delle pratiche terapeutiche in psichiatria e psicanalisi, alcuni terapeuti avevano cominciato a porre sotto osservazione il gruppo sociale in cui il paziente psichiatrico era in relazione, principalmente la famiglia.
Spostando l’interesse dall’individuo isolatamente considerato, alla sua famiglia, essi iniziarono a trattare i problemi psichiatrici come espressione di una disfunzione nelle relazioni familiari.
I Centri di ricerca e di sperimentazione più seguiti erano concentrati dunque negli anni 50 e 60, in due opposti punti geografici degli Stati Uniti, da un lato la California (Palo Alto) e, dall’altro, nella zona di New York e Filadelfia, tutti interessati al lavoro con le famiglie, anche se con un differente tipo di approccio al problema.
Il filone californiano infatti, deriva la sua ricerca da campi estranei alla psichiatria e alla psicanalisi, ossia all’applicazione delle scienze tecnologiche ai sistemi umani. L’altro filone partiva dalle teorie psicanalitiche e dall’osservazione diretta dei pazienti psichiatrici nell’interazione con le loro famiglie.
Entrambi confluivano nella pratica di lavoro clinico col sistema familiare, considerando la famiglia l’unità su cui impostare la diagnosi e la terapia.
Il nuovo pensiero si fondava sulla concezione dell’uomo come essere sociale che non può essere considerato al di fuori della relazione con gli altri esseri umani; sulla definizione dei gruppi umani come sistemi interattivi (persone in relazione e gruppi con storia come le famiglie); sull’importanza del contesto o cornice psicosociale in cui si sviluppa la relazione e da cui i messaggi verbali e non verbali traggono significato; sulla visione circolare della realtà, come superamento dell’ottica lineare/causale della scienza classica. Dal 1975 i terapeuti cominciarono a interessarsi del modo in cui il sintomo si era costruito esplorando la continuità tra passato e presente.
Ci volle tempo però per passare da una visione sincronica ad una (odierna) diacronica.
Si cominciò così a vedere la famiglia come quella che si vedeva nel momento che la si incontrava e non quella del passato: se avviene un cambiamento deve essere incluso in una nuova ipotesi, la famiglia deve essere vista come una nuova famiglia.
Si abbandona anche la tendenza a vedere la terapia come una storia coerente ed ordinata in sequenze dato che l’intervento in terapia crea un sistema nuovo. Il sistema perciò è visto sempre pronto ad evolvere in entità diverse, pronto cioè a costruirsi un futuro.
Il cambiamento in quest’ottica è un cambiamento discontinuo, non legato ad alcun programma, ne a passi prestabiliti. Ciò significa rinunciare ad ogni pretesa di onnipotenza terapeutica e restituire alla famiglia tutte le sue potenzialità evolutive.
Essa tende ad enfatizzare il futuro, il tempo delle possibilità in quanto il cambiamento ottenuto in terapia si spera possa continuare il futuro anche in assenza del terapeuta, perché il sistema ha al suo interno tutte le informazioni e potenzialità per le proprie possibili evoluzioni.



I pionieri della Terapia Familiare

Ripercorrendo la biografia dei pionieri colpiscono vari tratti di affinità nelle loro storie, ma anche di diversità che arricchiscono lo stile professionale di ciascuno.
Si pensi alla loro diversa origine geografica, dall’America del Nord e dal Sud, alla Russia, all’Italia, ma poi fusi nel crogiuolo degli Stati Uniti; alle loro esperienze infantili in famiglie numerose, spesso povere e con una storia familiare travagliata da problemi di salute, di emigrazione, di adattamento culturale, al differente background professionale, prevalentemente in medicina e psichiatria, ma anche in psicologia e assistenza sociale, alla loro vocazione terapeutica maturata a contatto con le sofferenze fisiche e psicologiche della gente, avendo essi stessi sperimentato tali sofferenze.


NATHAN ACKERMAN

Nato nel 1908 in Russia, da famiglia ebraica, che emigra negli USA nel 1912. Diventa psichiatra e psicoanalista.
Capace e astuto Nathan Ackerman comprese l'organizzazione complessiva delle famiglie che gli ha permise di guardare oltre le semplici interazioni comportamentali delle famiglie ma anche nei cuori e nelle menti di ogni membro della famiglia. 
Usò la sua forza di volontà e lo stile provocatorio di intervenire per scoprire le difese della famiglia e consentire ai loro sentimenti, le speranze ei desideri di emergere in superficie.
La formazione nel modello psicoanalitico di Ackerman è evidente nei suoi contributi e nell’approccio teorico alla terapia familiare. Ackerman propose che sotto l'unità apparente delle famiglie esiste una ricchezza di conflitto intrapsichico che vede i membri della famiglia divisi in fazioni.
Nel 1937divenne il capo psichiatra al Menninger Clinic di Topeka, Kansas, una clinica pediatrica. Qui decise per un trattamento che prevedeva uno psichiatra che seguisse il bambino e un assistente sociale che si occupasse invece della madre. Tuttavia, già durante il primo anno di lavoro si rese conto della necessità  di includere tutta la famiglia nel trattamento di un disturbo di uno dei suoi membri,  il paziente designato.
Insieme a Don Jackson, Ackerman fondò la prima rivista di terapia familiare, Family Process, che è ancora la principale rivista di idee in campo oggi. Nel 1955 Ackerman ha organizzato la prima discussione sulla diagnosi di famiglia a una riunione della American Association Orthopsychiatric per facilitare la comunicazione in materia di sviluppo della terapia familiare.
Scrisse il primo articolo  nel ’38, “The Unity of the Family”, in cui la famiglia veniva prospettata come unità sociale ed emotiva.
Sulla base delle sue concezioni fu uno dei  terapeuti che più si impegnò a ridurre la distanza tra se e i componenti della famiglia. Secondo il suo pensiero infatti, il terapeuta assume un ruolo parentale, che sviluppa mediante interessamento genuino, lealtà e sostegno.
Nel 1957 istituì il Family Mental Health Clinic di New York City e contemporaneamente iniziò ad insegnare alla Columbia University. Aprì il primo Istituto di Terapia Familiare nel 1960 che fu poi ribattezzato con il suo nome dopo la sua morte nel 1971.



MURRAY BOWEN 


La terapia familiare nasce negli anni ’50, ma viene riconosciuta ufficialmente solo negli anni ’70.
Bowen ha il posto di maggior rilievo per quanto riguarda le esperienze cliniche e di insegnamento della terapia familiare, e per lungo tempo è stato riconosciuto come uno dei fondatori della terapia familiare. A lui e alla sua scuola si deve, infatti, l’elaborazione della Family System Theory.
Bowen creò nella clinica in cui lavorava un reparto per ricoverare madri e figli, e nel 1952 introdusse nello studio anche i padri. Questo è considerato il primo passo verso la terapia con la famiglia.
A lui e alla sua scuola si deve, quindi, l’elaborazione dei concetti fondamentali per una teoria evolutiva della famiglia.

VIRGINIA SATIR


Nata in una famiglia rurale del Wisconsin, primogenita di cinque figli, la Satir è stata la prima terapeuta familiare donna in U.S.A. Lei stessa nella sua vita ha dovuto affrontare diverse sfide personali, familiari, professionali, imparando “…a trasformare le avversità in opportunità di apprendimento”.
Nella prima infanzia aveva sofferto di una grave forma di sordità; nello sforzo riabilitativo aveva imparato ad utilizzare la comunicazione non verbale per comprendere e farsi comprendere, una forma che diverrà poi una delle sue tecniche terapeutiche per aiutare le persone a comunicare attraverso un linguaggio alternativo alla parola e più adatto ad esprimere sentimenti profondi.
Anche sul piano professionale la Satir aveva mostrato capacità di trasformazione, spinta dalla sua curiosità intellettuale e dal suo attivismo. Così, dopo aver sperimentato l’insegnamento primario scoprendo le difficoltà psicologiche dei suoi alunni e delle loro famiglie svantaggiate, era diventata assistente sociale.
L’interesse per questi problemi l’aveva spinta ad approfondire la sua preparazione psicologica e ad acquisire pratica di Terapia Familiare , obiettivo che raggiunse unendosi al gruppo di ricerca diretto da G. Bateson a Palo Alto. Con tale gruppo condivise il modello terapeutico basato sulla comunicazione, come mezzo per capire le relazioni familiari, come tecnica per migliorarle, come modalità per entrare in rapporto empatico con le famiglie.
L’obiettivo principale del lavoro di Virginia Satir era creare contesti che promuovessero la conoscenza su come diventare più interamente umani.
Virginia credeva che lo strumento per il cambiamento è dentro ogni persona, quindi il suo training e la sua terapia, davano risalto allo sviluppo empirico. Credeva quindi nelle diverse possibilità di sviluppo di ciascun individuo e dei suoi sistemi di appartenenza. La sua maggiore abilità era quella di accogliere chiunque le fosse davanti con empatia, entrando in contatto sia con la loro sofferenza che con il loro potenziale di crescita positiva.
I quattro principi fondamentali dell’approccio della Satir sono :
- tutte le persone possiedono un potenziale innato di crescita ed autorealizzazione;
- il potenziale di crescita può essere alimentato o impedito dall’influenza del sistema familiare;
- il cambiamento in terapia dipende dalle caratteristiche del terapeuta e dalla sua capacità di instaurare un’alleanza terapeutica;
- la qualità esperienziale del “qui ed ora” nella terapia è determinante per sviluppare un cambiamento efficace. Quest’ultimo punto la Satir lo esprimeva nelle sue dimostrazioni ricche di movimento, contatto e di esperienze sensoriali.
Una sintesi del lavoro di Virginia Satir vede l’autostima di ogni individuo come promotrice di individui, famiglie, nazioni…più in salute. “Peace whitin, peace between, peace among”, pace dentro noi stessi, pace in mezzo a noi, pace tra tutti gli uomini. Questo motto colma la distanza tra l’individuo e il sistema.
La Satir guidava l’incontro terapeutico seguendo le parole dette, le parole inespresse e le reazioni interne. Riusciva a incontrare i bambini a livello profondo attraverso il contatto fisico e visivo, usando se stessa come strumento terapeutico primario.
Aveva sperimentato un nuovo modo di creare contatto: invitava ripetutamente ogni diade genitore-figlio a vivere la sensazione delle mani che racchiudono il viso, che permetteva una nuova possibilità di rapporto interpersonale profondo.
Per favorire nuove possibilità di incontro reciproco tra i membri della famiglia, Virginia Satir utilizzava il corpo e lo spazio, attraverso modalità analogiche, metaforiche e non-verbali. Due delle modalità con cui amava lavorare erano: la scultura familiarela ricostruzione familiare.

 CARL WHITACHER



Carl Alanson Whitaker nasce nel 1912 in una fattoria di Raymondsville, nello Stato di New York. Cresce in una comunità rurale isolata, totalmente immerso nella propria vasta famiglia, fino ai 13 anni, età in cui la famiglia si trasferisce a Syracuse per permettergli di continuare gli studi.
Sviluppa così un mondo fantastico personale, una grande sensibilità alla famiglia e alla famiglia estesa e una totale “incompetenza sociale”, che lo condurrà, quando dovrà affrontare il nuovo contesto urbano e la scuola, a momenti di disadattamento e paranoia.
Dopo la facoltà di Medicina, nel 1937 sposa Muriel, che gli darà sei figli e gli resterà accanto fino alla morte, avvenuta il 21 aprile 1995. Laureato in medicina e specialista in ginecologia, nel 1938 è assunto come psichiatra, alla Child Guidance Clinic di Louisville, nel Kentucky. Trovandosi a stretto contatto con la terapia del gioco e i processi emozionali metaforici dei bambini, Whitaker inizia a creare una dimensione degli interventi esperienziale e centrata sul «qui e ora».
In collaborazione con John Warkentin, terapeuta infantile formatosi alla Browen University, Whitaker sperimenta l'osservazione delle relazioni disturbate nel loro contesto (familiare) e l'utilizzo delle relazioni terapeutiche (con coppie di coterapeuti).
Nello stesso periodo anche altri pionieri cominciavano a osservare i sistemi familiari. Murray Bowen, Lyman Wynne, Gregory Bateson, Ivan Boszormenyi-Nagy e Nathan Ackerman erano impegnati nello studio delle famiglie dei soggetti psicotici ospedalizzati. Questi ricercatori partivano dalla teoria psicoanalitica, con il suo accento sul conflitto interiore, sullo sviluppo individuale bloccato e sull'invischiamento madre-figlio, per valutare se negli individui psicotici tali sintomi potessero essere rafforzati dai modelli interattivi delle famiglie disfunzionali.
Nel 1964 Whitaker divenne presidente del Dipartimento di psichiatria della Emory University di Atlanta dove, insieme a Malone, iniziò a usare la coterapia in coppia.
L'uso della co-terapia in quel periodo assomigliava al recente metodo sistemico che consiste nel disporre di un'équipe di osservazione, in cui un membro segue il processo interattivo mentre l'altro produce attivamente interventi terapeutici, anche se, nell'uso dell'équipe terapeutica da parte dei terapeuti sistemici, l'accento è posto sul punto di vista esterno (per quanto non distaccato) dell'équipe rispetto al terapeuta attivo mentre nel modello simbolico-esperienziale i coterapeuti sono entrambi fortemente partecipi delle interazioni emotive che avvengono nel corso della seduta.
Il terapeuta o l'équipe co-terapeutica assumono un impegno affettivo nei confronti della coppia o della famiglia in terapia.
Whitaker inizia negli anni sessanta ad essere riconosciuto ed apprezzato come terapeuta. Pur non avendo egli creato una propria scuola, numerosi terapeuti si recano da lui per apprendere suo metodo «pazzo e creativo» (Andolfi).
« A vederlo lavorare, pare davvero che la terapia secondo Whitaker consista semplicemente nel mettere in scena la persona unica e irripetibile del terapeuta» (Bertrando).
Eppure, la sua terapia obbedisce anche ad alcuni principi base, tra cui l’importanza del lavoro con le famiglie d’origine.

JAMES FRAMO

James L. Framo nasce e cresce a Filadelfia sud da una famiglia di emigranti italiani. I genitori lo crescono in una famiglia di stampo tradizionale, il padre lavorava e la madre faceva la casalinga. E’ il secondogenito di quattro fratelli, il figlio “buono della famiglia”, il preferito dalla madre. Tutta la forza della famiglia Framo proveniva dalla madre, in quanto il padre aveva scarsa influenza sulle decisioni importanti. La dipendenza da gioco del padre provocava numerose liti tra i due genitori e i continui tentativi di fare da “consulente di coppia” furono totalmente inutili. Un evento molto importante nella vita di Framo fu il suo arruolarsi nelle Seconda guerra mondiale, esperienza che lo fece riavvicinare anche alla figura paterna. Dopo l’addestramento di base fu inviato in Nordafrica e successivamente passò due anni nella campagna D’Italia fra Cassino e Bologna. Framo descrive così la sua esperienza in guerra: “ la paura pervasiva, erosiva, è presente tale e quale, dal primo all’ultimo giorno di combattimento, il fango e le montagne, il terrore solitario, i rombi di tuono della guerra, la nostalgia , vivere nella terra come un animale,…vedere giovani che morivano a centinaia, e non sapere se si sarebbe sopravvissuti….Imparai la regola numero uno della guerra: sopravvivere!...”. Rientra dal fronte ferito dopo che una granata scopppiò vicino alla sua postazione a nord di Firenze. La sensazione che pervaderà per molto tempo Framo sarà il senso di colpa per aver abbandonato i compagni in guerra. Altra tappa importante della vita di Framo è stata la separazione dalla prima sua moglie e la perdita dei due figli maschi.
Jimmie e Michael muoiono entrambi a nove anni a causa di un problema cardiaco. Questa profonda sofferenza porterà a Framo una forte depressione per cui tornerà in analisi.
Un fattore complicante alla elaborazione del lutto del primo figlio fu il non aver stabilito con Jimmie una relazione soddisfacente, si era inconsciamente ripetuta la distanza che Framo aveva vissuto con suo padre. La nascita del secondogenito maschio aveva dato a Framo la possibilità di amare senza ambivalenze un figlio maschio.
Con le due figlie femmine instaura un rapporto eccellente, la presenza di due figlie femmine in famiglia ha dato all’autore “… la possibilità di avere una prospettiva più equilibrata sulle questioni di genere tramandate dalla famiglia d’origine…”. Mary e Framo sono stati due buoni genitori a discapito della relazione coniugale. Il matrimonio con Felise Levine è stato molto più soddisfacente; scrive Framo nella sua biografia: “ … una nuova partner può portare alla luce aspetti diversi di una persona, il che a sua volta può influenzare il suo comportamento. Mi ci sono voluti anni per rielaborare l’idea di essere l’uomo che ho imparato da mio padre, e questo cambiamento può aver avuto a che fare con il motivo per cui, nel mio secondo matrimonio, sono più libero di amare e di dare…”.

 SALVADOR MINUCHIN

Nato in Argentina da una famiglia di ebrei russi  immigrati, cresciuto in un contesto patriarcale. Minuchin ha tratto dalle sue esperienze di vita infantili il senso della struttura familiare come sede di organizzazione, di interdipendenza, di regole per salvaguardare sia il funzionamento del sistema familiare nel suo complesso che i margini di libertà di ciascun componente.
Divenuto medico pediatra, ha lavorato prima in Israele per i bambini orfani e immigrati, poi si è trasferito in U.S.A. per specializzarsi in psichiatria. Negli anni ‘50, è stato chiamato a New York a dirigere un centro residenziale per ragazzi delinquenti.
Qui ha sperimentato i limiti del trattamento psicoanalitico per recuperare tali soggetti senza il coinvolgimento delle loro famiglie. Da questa esperienza deriverà per Minuchin l’interesse per il lavoro con le famiglie, in particolare quelle povere e socialmente svantaggiate, caratterizzate da disorganizzazione e indefinitezza di ruoli. 
Orientamento di base di Minuchin è la Terapia Familiare Strutturale, un insieme di teorie e di tecniche rivolte a trattare l’individuo nel suo contesto sociale. La terapia fondata su questo orientamento mira a cambiare l’organizzazione interna della famiglia. Quando la struttura del gruppo familiare si trasforma, anche le posizioni dei componenti di quel gruppo cambiano, di conseguenza, le esperienze di ciascun individuo cambiano.
Caratteristiche distintive della terapia familiare strutturale sono l'uso di metafore spaziali e organizzazionali e il ruolo attivo assegnato al terapeuta come strumento di cambiamento.
La terapia strutturale della famiglia vede l’uomo come parte dell’ambiente.
La famiglia è un gruppo sociale naturale che regola le reazioni dei sui componenti, sia rispetto a stimoli che vengono dall’interno che dall’esterno.
La funzione della famiglia nella società è una funzione di «sostegno, regolazione, educazione e socializzazione dei suoi membri». Una premessa fondamentale della terapia familiare strutturale è la connessione tra famiglia e individuo: la famiglia esiste per l'individuo, l'individuo esiste all'interno della famiglia alla quale deve adattarsi. L'adattamento alla propria famiglia, non è rinuncia all'identità personale, ma ne è la condizione principale.
La patologia, dunque, può essere nell’individuo, nel suo contesto sociale o nell’interazione tra i due.
Questo è il fondamento della terapia familiare. Il terapista si associa alla famiglia con lo scopo di cambiarne l’organizzazione, in modo tale da cambiare l’esperienza dei membri della famiglia.
La terapia strutturale della famiglia è una terapia d’azione. Lo strumento di questo tipo di terapia consiste nel modificare il presente, e non nell’esplorare o interpretare il passato. Dal momento che il passato ha molto contribuito alla creazione dell’attuale organizzazione e al funzionamento della famiglia, si manifesta nel presente e potrà essere suscettibile di cambiamento per mezzo di interventi che cambiano il presente. Nel presente, l’obiettivo terapeutico è il sistema familiare.


 JAY HALEY

Due persone hanno influenzato il suo modo di pensare, Bateson e Erickson, con i quali lavora in gruppo.
Si occupa della comunicazione all’interno di un sistema con un membro schizofrenico. E propone il concetto di double bind, doppio legame, inteso come una comunicazione in cui ci sia una ingiunzione, una seconda ingiunzione in conflitto con la prima, e una terza che proibisca di abbandonare il campo. Viene elaborato un modello per descrivere le relazioni e per differenziare le famiglie con un membro schizofrenico dalle altre, e propone la schizofrenia come modalità adattiva all’interno di quei sistemi familiari regolati da particolari interazioni comunicative.
Prende forma l’idea del paziente designato, lo psicotico dichiarato, si sacrifica per il gruppo; si inizia a ipotizzare sui miti familiari; si immaginano le famiglie organizzate dalla tendenza a mantenere lo status quo.
La collaborazione tra Haley e Bateson si interrompe sull’idea di potere: H. identifica la quantità di potere che una persona permette ad un’altra di avere su di lei come il problema centrale dell’esistenza umana; per B. non esiste nelle persone questo bisogno di controllo.
Secondo Haley la famiglia è organizzata gerarchicamente, i membri lottano l’uno contro l’altro e chi controlla acquista una posizione centrale e fondamentale nel dettare regole. Da Erickson ha mediato l’idea del terapeuta come provocatore e catalizzatore di cambiamento.
Quella di Erickson appare una terapia legata al problema presentato, in cui si presta attenzione alle risorse del singolo, e si tenta di interrompere il pattern usuale di comportamento; una terapia interessata alle resistenze e a come aggirarle. In terapia si utilizzano tecniche diverse per problemi diversi. Il terapeuta strategico interviene sui problemi non sulla famiglia, non sul sistema.
Considera la famiglia come unità essenziale in analisi; la sua idea di triangolo trova in terapia, si occupa infatti dell’interazione tra tre persone: la coalizione tra due persone con posizione gerarchica diversa contro una terza in una posizione relazionale in cui questa coalizione viene negata.
Propone le teoria del problem solving. Un modello che fa da ponte tra il modello strutturale e quello strategico. Insiste sulla necessità di identificare le sequenze comportamentali triadiche più usuali e di prestare attenzione al rispetto dei confini gerarchici come garanzia del buon funzionamento familiare. Nelle famiglie patologiche esistono due gerarchie, una ufficiale e un’altra che squalifica la prima.
Il pensiero haleiano:
_ Il terapeuta è incluso nella diagnosi, e determina con la definizione del problema, la possibilità o meno di rendere una situazione evolutiva; è responsabilità del clinico definire il problema in modo che possa essere risolto;
_ Il processo terapeutico include un’indagine sul problema presentato e sui cambiamenti desiderati;
_ Il clinico ha il compito di dare direttive chiare e precise e di ottenere che le persone si comportino nella maniera desiderata;
_ I sintomi sono una metafora di problemi e conflitti di potere, non si sviluppano a caso ma sempre nei momenti di crisi che coincidono con il passaggio della famiglia da uno stadio all’altro del ciclo vitale.
Haley propone una terapia direttiva, come la supervisione che lui opera: il supervisore è in controllo e determina ciò che accadrà nella stanza, ha l’ultima parola rispetto alle tattiche e alle strategie; il modo in cui il supervisore si comporta con il clinico lo influenzerà in terapia e così via nella scala gerarchica della famiglia, con una modalità a cascata.
Haley, grazie al suo lavoro al Mental Research Institute di Palo Alto, ha elaborato delle tecniche specifiche ed innovative di intervento terapeutico. L’autore ritiene che lo stile del terapeuta deve essere dirompente e molto direttivo.il compito fondamentale del terapeuta è quello di assumenrsi la responsabilità della presa in carico del paziente e di condurre sempre e comunque “il gioco” tra le due parti al fine di ottenereil cambiamento terapeutico.
Haley considera il paziente come imbrigliato in strutture e rapporti di tipo gerarchico che non gli permettono l’espressione delle proprie risorse e delle proprie personalità.
Il terapeutica deve dunque mantenere il controllo di tutto quello che accade all’interno del contesto terapeutico, e predisporre un tipo di intervento centrato sul problema, atto a risolverlo nel modo più veloce ed efficace possibile (Haley, 1974).
Il terapeuta deve quindi assumere un ruolo attivo e “manipolatorio” in modo da usare, anche con modalità implicite, l’influenza personale e il linguaggio suggestivo.
La psicoterapia secondo l’autore, è paragonabile ad una partita a scacchi dove l’obiettivo viene raggiunto attraverso l’uso di particolari strategie elaborate “ad personam” che devono comunque essere modificate in itinere.
Sposa Cloè Madanes, che lo influenzerà: viene introdotta la tecnica teatrale; e la fantasia e la creatività per costruire realtà alternative.
Partito come ricercatore puro con il progetto Bateson, Jay Haley si costruisce con gli anni una pratica di terapeuta privato, scegliendosi come supervisore Milton Erickson, grande ipnotista che Bateson aveva inviato a intervistare nel 1953. È attraverso Erickson, geniale soprattutto nel combattere con i clienti battaglie di potere, incredibilmente abile a mantenere il controllo delle situazioni più difficili, che Haley si crea l’idea che informerà tutta la sua attività di terapeuta: le relazioni umane sono una lotta incessante per decidere chi detta le regole delle relazioni stesse; che anche i sintomi psichiatrici sono manovre di potere all’interno di una relazione; e che il terapeuta deve riuscire a sua volta a disfare queste lotte di potere guadagnando e mantenendo, con ogni mezzo, la propria posizione di potere. La fascinazione di Haley resterà sempre il potere.
Il sintomo – sotto questo profilo – è perciò una modalità comunicativa utile per controllare gli altri. Ciò significa che il paziente designato è il controllore, che usa il potere a lui concesso dal sintomo, e gli altri membri della famiglia sono i controllati che subiscono il potere del sintomo, anche se questa lettura non è da intendersi in modo semplicistico: «L’importante qui non è la lotta per controllare l’altro, ma piuttosto la lotta per controllare la definizione della relazione» (Haley, 1963).
Per Haley le regole familiari definiscono una struttura di potere. Le persone creano gerarchie e poi lottano per sovvertirle. Allo stesso modo clienti e terapeuti s’impegnano in una battaglia per definire la gerarchia in terapia. Se il terapeuta riesce a sventare le manovre dei clienti, la terapia ha successo. Haley pubblica la prima sintesi delle proprie idee nel 1963 con Le strategie della psicoterapia. Frattanto, ha abbandonato la pratica privata, entrando nel MRI come ricercatore puro. Conferenziere sempre più richiesto, diventa il primo direttore della rivista principale delle terapie familiari, Family Process. Diventa una figura influente, ma in un suo modo distaccato, misterioso, come fosse sempre nascosto dietro un metaforico specchio, a chiosare e commentare il lavoro altrui.
Dal 1968 al 1975, lavora con Salvador Minuchin alla Philadelphia Child Guidance Clinic. Il libro Terapie non comuni (1973), prodotto in questi anni, costituisce uno spartiacque nella sua carriera. Ennesimo tributo alle tecniche inimitabili del maestro Milton Erickson, è anche l’opera in cui Haley inizia a dare un saggio delle proprie idee originali di terapeuta strategico: «Nel corso della terapia strategica, l’iniziativa è quasi sempre nelle mani del terapeuta, che deve individuare i problemi da risolvere, stabilire gli obiettivi, progettare gli interventi per raggiungere tali obiettivi, valutare le risposte che riceve per correggere il suo approccio e, infine, esaminare i suoi risultati per vedere se la terapia ha avuto buon esito» (Haley, 1973).
Sotto l’influenza di Minuchin, Haley, senza perdere l’originaria enfasi sul potere, costruisce un modello della terapia che unisce intuizioni strategiche con elementi strutturali. Nella sistematizzazione delle sue idee si ritrova anche l’influenza della moglie, Chloé Madanes, sposata nel 1975, ultimo anno della sua permanenza a Filadelfia. Insieme, fondano a Washington il loro istituto di terapia familiare. La terapia del problem-solving (Haley, 1976) propone la prima vera sintesi della terapia strategica.
Nel modello di Haley, i sintomi sono considerati segni di uno sbilanciamento della struttura familiare, in cui i normali confini generazionali e le gerarchie sono sovvertiti da alleanze transgenerazionali di potere. Il modello è dunque gerarchico, perché la struttura della famiglia, come d’ogni altro insieme umano, compresa la diade terapeuta/cliente, è letta come gerarchia, in cui ogni persona utilizza strategie e tattiche per mantenere, quant’è possibile, il potere di definire la relazione con l’altro. Inoltre è normativo, perché prevede la possibilità di una struttura gerarchica "corretta", che non produce patologia. I sintomi sono così leggibili tramite un doppio criterio: da un lato modi di stabilizzare le strutture gerarchiche nella famiglia, e dall’altro tattiche di potere personale. Il terapeuta riorganizza le strutture squilibrate adottando a sua volta, all’interno della terapia, strategie e tattiche che vanificano i continui tentativi del cliente di mantenere il controllo della relazione.
Se con gli anni la terapia molto gerarchica e poco collaborativa di Haley diventa sempre meno attuale, la sua finezza nella lettura dei giochi di potere resta ineguagliata, come pure lo stile di scrittore limpido e graffiante, che lo confermano come una delle penne migliori in terapia della famiglia.

MILTON ERICKSON
  
La caratteristica più evidente dell’opera di  M. Erickson è il trasferimento alla psicoterapia delle innovative scoperte relative al fenomeno ipnosi e della suggestione. L’autore usava un linguaggio ingiuntivo, che insieme ad un repertorio di mosse strategiche aveva lo scopo di far vivere al paziente nuove esperienze emotive atte a destrutturare la sintomatologia preesistente.
Durante la sua carriera, durata oltre 40 anni, Erickson usò molto frequentemente l’ipnosi, ma con modalità completamente differenti da quelle usate dagli psicoanalisti. Erickson la utilizzava soprattutto come strumento comunicativo per far emergere le diverse modalità relazionali che venivano a crearsi, nella diade terapeutica, durante l’interazione comunicativa. L’ipnosi viene cioè utilizzata come strumento per riattivare le potenzialità irrigiditesi del paziente e per condurlo al cambiamento.
La modalità di intervento dell’autore evidenziava il suo sconfinato rispetto e la sua innata fiducia nei confronti dell’essere umano.
Erickson credeva che ogni persona rappresentasse una realtà irripetibile con esperienze e con modalità di percepire ed elaborare la realtà del tutto individuali.
La prima cosa da tenere presente quando si tratta con un paziente, un cliente o una persona è da rendersi conto che ciascuno di essi è un individuo. Non ci sono due persone uguali. Non ci sono due persone che capiscano la stessa frase allo stesso modo, e così trattando con la gente, non dovete cercare di far sì che si adattino al vostro concetto di cosa loro dovrebbero essere…Dovreste cercare di capire quale viene ad essere l’idea che loro hanno di se stessi” Erickson
Da ciò, secondo Erickson, il terapeuta deve adattarsi al paziente cercando di entrare nelle sue modalità di rappresentazione della realtà, parlare il suo stesso linguaggio.
Compito del terapeuta è guarire. Non è giudicare né censurare ma semplicemente rendere un servizio ai pazienti che li renda capaci di vivere le proprie vite nella migliore e più adeguata modalità” (Erickson, Rossi, 1980)
con Erickson si verifica un a svolta epocale: il problema è osservato nella sua qualità stilistica nel tempo presente, ovvero piuttosto che sui possibili perché del problema si indaga sul come il problema funzioni qui e ora.
La terapia di Erickson era pratica e improntata a raggiungere risultati tangibili. Ha sempre enfatizzato il ruolo della efficacia dell’intervento: è soprattutto il risultato a indirizzare il terapeuta, piuttosto che la teoria.
Era sensibile al contesto di appartenenza dei pazienti. Si trovava pronto a riconoscere le matrici sociali e culturali del disagio individuale e ne teneva conto nella progettazione delle strategie terapeutiche, che venivano calibrate non solo sul singolo, ma anche sul contesto sociale più esteso.
La prima parte dell’intervento è un’accurata osservazione, che accompagna comunque l’intero processo terapeutico. L’osservazione è un processo attivo che modifica l’individuo o il contesto familiare. Viene definita responsiva in quanto capace di dar luogo alla risposta del terapeuta che è sinergica con i dati dell’osservazione, si tratta cioè della coerenza del terapeuta che orienta il suo comportamento in relazione ai dati che coglie nell’osservazione.
Erickson era convinto del valore positivo delle motivazioni dell’individuo. Un individuo o una famiglia, per quanto disturbati, conservano capacità e risorse che svolgono un ruolo fondamentale nel determinare l’efficacia dell’intervento terapeutico.
È necessario che il terapeuta dimostri di credere in ciò che afferma. Quando il terapeuta ridefinisce in positivo un comportamento che la famiglia ha sempre ritenuto negativo, può dare dimostrazione di buona fede se riesce a utilizzare quello specifico comportamento.
Quando un sintomo è utilizzato non può più essere considerato tale, perché finisce per trasformarsi in uno strumento utile per ottenere un risultato terapeuticamente valido. L’utilizzazione dei sintomi e delle resistenze ridimensiona la loro disfunzionalità e permette di riconoscerne le potenzialità.
Importante riconoscere l’atteggiamento paradossale del terapeuta, che consente di evitare gli eccessi delle strategie. L’atteggiamento paradossale è fondato soprattutto sulla conferma dei pattern familiari, sulla convinzione che siano questi gli strumenti stessi del cambiamento.
Il terapeuta deve tener conto dei livelli differenti, sul piano logico, comunicativo e comportamentale, che si determinano nel corso del processo terapeutico.
Principi dei livelli multipli di osservazione e di intervento:
1. la realtà e i punti di vista degli individui, della famiglia e del terapeuta non hanno valore assoluto ma possono mutare nel tempo.
2. le affermazioni in seduta non sono mai né del tutto vere, né del tutto false; il terapeuta non deve ottenere la “verità”,ogni informazione può contenere significati rilevanti oppure no.
3. l’intervento deve rispettare le molteplicità di significati della comunicazione.
4. il linguaggio del terapeuta deve contenere semplicità e complessità: semplice per essere compreso, complesso perché deve rispondere a molti interrogativi.
5. la richiesta di cambiamento non è totale.
6. il terapeuta non svolge la funzione di determinare il cambiamento della famiglia, ma ne crea semplicemente l’opportunità.
Il terapeuta accetta le comunicazioni non esplicite o ambigue e ne rispetta la complessità, rispondendo con comunicazioni altrettanto complesse, come quelle del linguaggio indiretto. Il terapeuta deve comunque saper usare in modo corretto anche il linguaggio diretto ed essere esplicito e chiaro quando le famiglie lo richiedono.
La terapia di Erickson era pratica e improntata a raggiungere risultati tangibili. Ha sempre enfatizzato il ruolo della efficacia dell’intervento: è soprattutto il risultato a indirizzare il terapeuta, piuttosto che la teoria.

MARA PALAZZOLI SELVINI

Un’emblematica storia di resilienza
In psicologia i resilienti sono quegli individui che sopravvivono ad eventi fortemente stressanti e traumatici. Questi eventi vengono collegati a successive tragedie, delineando tragiche catene intergenerazionali di trasmissione della sofferenza. I resilienti sono l’eccezione a questa regola, pur avendo subito traumi, vivono sereni.
Quali fattori consentono ai resilienti di sopravvivere o addirittura di prosperare?
Mara è resiliente in quanto rifiutata e dimenticata dai genitori. È l’allieva più brava della scuola; ma si rifugia nello studio per fuggire dalla realtà familiare. La salva la capacità di non essere passiva, di non sentirsi vittima impotente. Ha la capacità di lottare non solo per l’affermazione personale, ma anche per farsi rispettare nelle relazioni più importanti.
Una base sicura è la salvezza. Questo è il primo fattore di resilienza. E chi non ne ha potuto fruire con la madre biologica, disperatamente lo ricercherà altrove per tutta la vita.
Aver conosciuto l’amore incondizionato di una madre è un primo fattore di resilienza, mai sentirsi vittima è il secondo, ma la capacità autocritica di un genitore ne è un terzo.
Il resiliente è un individuo che fatica a trovare un punto di equilibrio; rischia di oscillare da un eccesso di dipendenza quando sente di aver trovato l’amore, e un eccesso di autarchia (autonomia) quando teme di dover contare solo sulle proprie forze.
Il resiliente ha vissuto sulla propria pelle la constatazione che non solo l’amore lo rende protagonista, anche la rabbia, l’odio, la sfida, hanno fatto di lui quello che è.

Nata a Milano è riuscita a sopravvivere psicologicamente agli stress dell’infanzia e del difficile rapporto con i genitori grazie alla sua capacità di resilienza, ossia di quel fattore positivo in grado non solo di superare, ma di rendere produttivi eventi e condizioni di vita altrimenti negativi
Medico, psichiatra e psicoanalista ha dedicato la prima parte della sua vita professionale al trattamento di ragazze anoressiche, divenendo, negli anni 60 una esperta di fama europea
Affascinata dall’esordiente movimento di T.F. in U.S.A., la Selvini nel 1967 ha fondato a Milano, con colleghi medici, il primo Centro per lo studio della Famiglia, inizialmente ad orientamento psicoanalitico, successivamente adottando il modello/strategico di Palo Alto per il lavoro con le famiglie di giovani psicotici e anoressiche.



Fonte: Andolfi Maurizio Pionieri della Terapia Familiare Editore:  Franco Angeli 2005



Nessun commento:

Posta un commento