giovedì 28 novembre 2013

IMPARARE A LEGGERE I PROPRI SENTIMENTI - I PARTE

Che cos'è la FRUSTRAZIONE?


“Impara come trasformare la frustrazione in fascino.
Affascinandoti alla vita imparerai molte più cose di quanto potresti
se fossi frustrato da essa.”
(Jim Rohn)



La Frustrazione è uno stato emotivo ad alta intensità appartenente al sentimento della Tristezza. Nasce da un mancato soddisfacimento di uno scopo, di un bisogno o di un desiderio che fa capolino quando un ostacolo impedisce il conseguimento di un nostro obiettivo. E' lo stato  d'animo di   chi   ha  la sensazione che  tutta  la sua  opera  sia o sia stata vana, inutile”. Si dice: “E' come sbattere  la testa contro il muro”, “E' inutile: qui non si combina niente”, “Per quanto ci provi, proprio non ci riesco”.
L’esperienza della frustrazione, molto comune nell’esistenza di ognuno, ha un valore formativo importante poiché favorisce la ricerca di soluzioni al problema in chi riesce a reagire con caparbietà e assertività cercando di non perdere di vista l’obiettivo ed eliminando ogni ostacolo che lo divide da esso. Tuttavia una condizione costante di frustrazione è nociva in quanto in grado di bloccare indefinitamente un comportamento, generando nel lungo termine un profondo e doloroso sentimento di impotenza che spesso esplode in teatrali crisi di rabbia rivolte sul primo malcapitato, sul diretto interessato o, se il senso di colpa è grande, esclusivamente verso se stessi.

Le frustrazioni possono essere affrontate e risolte, modificando il sistema di risposta nei confronti delle difficoltà che il mondo esterno procura. 

Dott.ssa Teresa Giuzio

mercoledì 20 novembre 2013

INIZIATIVA IN EVIDENZA

Oggi 20 Novembre si celebra la GIORNATA

INTERNAZIONALE DEI DIRITTI PER L’INFANZIA


I bambini sono la parte di noi che lasciamo al mondo, sono la nostra eredità e contemporaneamente il nostro migliore investimento. Sono il presente e il futuro messi insieme, la tenerezza, la dolcezza e la speranza di un mondo sempre migliore.
Difendere i loro diritti significa dargli giusti insegnamenti, renderli capaci di essere o oltre che di fare. Non è solo di cibo che hanno bisogno per crescere, ma di sicurezza per affrontare le avversità, di autonomia per fare le scelte giuste, di istruzione per migliorarsi nel tempo, ma soprattutto di calore, di cure e di un clima sereno dove imparare ad essere persone.



Molti bambini e adolescenti si fanno carico di segnalare un disagio che non è solo loro, ma di tutta la famiglia. Tale segnale può trasformarsi in una difficoltà scolastica, relazionale, in aggressività, in problematiche alimentari,  in ansia, in insonnia, in depressione e tanto altro. Soffrono i bambini, quindi, ma soffrono anche i genitori e soffrono i fratelli; spesso non si sa a chi rivolgersi. 
Bisogna sempre chiedersi: “cosa mi sta dicendo mio figlio attraverso questo problema?”, e affrontarlo perché, come la neve insegna, per quanto cerchiamo di nascondere ciò che ci fa male se non lo affrontiamo prima o poi riaffiorerà.
Il Centro di Psicoterapia Familiare per tutto il mese di Novembre dà la possibilità di effettuare una consulenza gratuita legata alle problematiche dell’infanzia e dell’adolescenza, nelle sedi di Pescara (PE), Francavilla al Mare (CH) e San Severo (FG).


Basta contattare il 349.59.48.873 o via e-mail 

sienaivana@gmail.com facendo riferimento all’evento in corso.

sabato 16 novembre 2013

IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA

ANSIA E SIGNIFICATI PER IL PRIMO GIORNO DI

 SCUOLA




Asilo e scuola sono iniziati e il primo giorno è uno di quei momenti che non si scordano più, sia per il bambino sia per i genitori, i quali con grande emozione accompagnano il piccolo in un nuovo mondo tutto da scoprire.
Il primo giorno di scuola è per tutti un momento indimenticabile, caratterizzato da paure e timori, molti genitori immortalano questo momento con una bella fotografia nella quale non è assicurato di certo un sorriso smagliate del bimbo.
Affrontare il primo giorno in classe lontano dalla famiglia può creare non pochi problemi che assumono l’aspetto dell’ansia. L’entrata nel mondo della scuola segna il momento del nascere dei primi cenni di autonomia.
È il primo distacco e può essere percepito dalle mamme con uno "strappo" affettivo, che può condizionare anche il bambino.

Molti genitori però vivono il primo periodo, quello dell’inserimento, con un po’ di preoccupazione: il bambino si troverà bene? Piangerà? Soffrirà per il distacco?

Spesso è proprio la mamma ad affrontare con difficoltà la separazione, in effetti in ogni mamma, insieme alla gioia di vedere crescere il proprio bambino, c’è anche il desiderio che rimanga piccolo, dipendente da lei. Sono sentimenti normali, quello che conta è fare in modo che si trasformino, anche per lei, in un momento di crescita.
E’ quasi inevitabile che il bambino pianga al momento del distacco. Anzi, il pianto è un modo per scaricare la tensione. Al momento dei saluti è liberatorio e non deve preoccupare, anche perché nella maggior parte dei casi finisce in fretta. Capita invece che al bambino venga il magone nel corso della mattinata, perché gli viene in mente la mamma oppure è disorientato. In questi casi può aver bisogno di un po’ di tempo in più per ambientarsi e l’inserimento può richiedere una durata superiore,la scuola materna è una palestra importante.

Ma cosa accade nel momento del distacco?


Il bambino, forse per la prima volta, non ha l’adulto tutto per sé, deve imparare a dividere le attenzioni della maestra con gli altri, a seguire nuove regole, a stare nel gruppo, ad aspettare il suo turno per utilizzare i giochi. E’ un grande cambiamento nella sua vita.
Ci sono bambini che hanno reazioni inaspettate. Alcuni diventano all’improvviso prepotenti, altri molto timidi. Alcuni regrediscono e ad esempio tornano a farsi la pipì addosso.

Ma queste diverse reazioni dei bimbi a cosa sono dovute?

Probabilmente sono correlate ai diversi stili di attaccamento che si sono instaurati con la figura materna.
Il concetto di attaccamento fu introdotto nel 1958 da John Bowlby, per indicare il legame biologico ed emotivo che caratterizza le relazioni tra madre e bambino nei primi tempi di vita.
L’autore inglese lo definisce come un intenso legame che un essere umano vive precocemente e reciprocamente con un altro essere, in modo specifico e durevole, a scopo adattivo.
La teoria dell’attaccamento nasce con un esplicito interesse verso i primi anni di vita dell’essere umano. Bolwby sosteneva che “l’attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla tomba”.
L’attaccamento viene concepito come una predisposizione dell’organismo che si esprime attraverso comportamenti di ricerca di contatto fisico (aggrapparsi, seguire ecc.) o in segnali atti a suscitare questo contatto (pianto, sorriso, sguardo, richiamo ecc.).

Come si definisce una relazione di attaccamento?

Fondamentale risulta la presenza di tre caratteristiche:
-       -   ricerca di vicinanza a una figura preferita;
-       -   l’effetto “base sicura”;
-       -   la protesta per la separazione.

Nei primi diciotto mesi di vita il bambino instaura con la persona che si prende cura di lui uno schema di comportamento che esprime il suo bisogno di attaccamento. Se la figura che si occupa del bambino è costante, il piccolo costruisce via via uno schema interno di essa che, verso i quattro cinque mesi, è abbastanza differenziata da fargli rifiutare altre figure sostitutive.Quando però le cure sono suddivise tra più persone e non provengono da una figura privilegiata, il piccolo si lascia curare anche da queste altre persone poiché gli sono diventate familiari.
Secondo Bowlby, nessuna variabile ha sullo sviluppo della personalità effetti di maggiore portata delle esperienze fatte da bambini in famiglia. A partire dai primi mesi nei suoi rapporti con la figura materna, proseguendo poi negli anni dell' infanzia e dell'adolescenza nei suoi rapporti con entrambi i genitori, il bambino si costruisce modelli operativi del modo in cui le figure di attaccamento si potranno comportare nei suoi riguardi in situazioni diverse, e su tali modelli sono basate tutte le sue aspettative, e pertanto tutti i suoi programmi per il resto della vita.
La tendenza del bambino a reagire con paura di fronte a situazioni allarmanti, dipende da quanto percepisce disponibili le sue figure di attaccamento.

John Bowlby distingue due variabili:
·        Fin dai primissimi mesi la presenza o l'assenza reale di una figura di attaccamento è fondamentale nel determinare se una persona è o non è allarmata in una qualsiasi situazione potenzialmente pericolosa;
·        La presenza Fiducia o sfiducia nel fatto che la figura di attaccamento sarà disponibile, pur non essendo realmente presente, lo renderà capace di rispondere in modo adeguato in qualsiasi situazione di bisogno.
Più l'individuo è giovane, più ha importanza la prima variabile e fino ai tre anni questa è una variabile dominante, successivamente diventeranno sempre più importanti le previsioni di disponibilità  (dopo la pubertà queste diventano le variabili dominanti).
Anche se i modelli operativi possono subire delle modificazioni, ad esempio quando il bambino dovrà confrontarsi con nuove relazioni, quelli che sono stati costruiti nell’infanzia sono particolarmente persistenti e le tracce dei precedenti adattamenti vengono conservate.
Mary Ainsworth, collaboratrice di Bowlby e co-fondatrice della teoria dell’attaccamento, ha effettuato numerose ricerche sulle tipologie di relazioni che si instaurano tra madre e bambino nei suoi primi anni di vita, definendo varie tipologie di attaccamento che si vengono a sviluppare.
Tali ricerche hanno confermato che la sensibilità e la reattività del genitore agli stati emotivi del bambino è determinante per il modo in cui egli impara a regolare gli affetti e ad entrare in relazione con gli altri. Un buon attaccamento quindi favorisce l’autonomia, ossia l’elaborazione dell’equilibrio tra attaccamento e separazione.
La mancanza di autonomia, invece, determina dipendenza, uno stato psicologico di passività che non facilita la costruzione dell’identità del bambino.

Il momento dell’ingresso a scuola è un momento molto particolare e delicato in cui il bambino, i suoi genitori e il corpo docente devono affidarsi l’uno l’altro.

È importante creare le condizioni affinché la famiglia si senta supportata, ascoltata e accetti di condividere questo percorso educativo con persone “estranee”.

La relazione di fiducia tra genitori e insegnanti, ad esempio, pone le basi per un’esperienza molto importante per la formazione della personalità del bambino. Bisogna inoltre tener sempre presente il fatto che ogni bambino ha un tempo individuale per fare ogni cosa e ha bisogno che il suo tempo sia rispettato.
Quindi è molto prevedibile che il primo giorno di scuola e la separazione dalla mamma possano rappresentare per il bambino un’esperienza angosciante, ma al tempo stesso se si fiderà della madre potrà anche tollerare la sua assenza fino al momento in cui il bambino sentirà di “appartenere” al nuovo ambiente.
È auspicabile osservare sempre un attaccamento sicuro, ma laddove questo non vi sia, l’educatore dovrà “lavorare”, assieme al gruppo educativo, per sensibilizzare la famiglia, comprenderla, sostenerla invece di colpevolizzarla, e questo affinché essa divenga la base affettiva da cui il bambino possa partire per sviluppare la sua autonomia.

Il bambino dopo aver creato una relazione di fiducia con la maestra/e sarà in grado di esplorare in modo attivo l’ambiente e creare nuove relazioni con i coetanei e con gli altri adulti.

Alcune scuole prevedono l’inserimento in piccoli gruppi in quanto il gruppo facilita la condivisione dell’esperienza e la tolleranza delle ansie, delle paure per il genitore e dell’angoscia da separazione per i bambini. In questi modo gli “altri” diventano uno specchio dei propri sentimenti che in quanto comuni sono più facili da accettare.
Personalmente ritengo fondamentale il ruolo della maestra, che preferisco chiamare educatrice,perché può rappresentare un valido sostegno del bambino e della sua famiglia soprattutto nella fase di ingresso, quindi una persona speciale, con cui rapportarsi in modo concreto e immediato e che potrà  accompagnarli durante tutto il percorso.
Sarà questa persona speciale che guiderà il bambino nei momenti di routine, contenendo le sue emozioni in modo stabile e prevedibile, quindi in modo piacevole e rassicurante renderà partecipe i genitori del percorso del bambino, delle sue modalità relazionali e comunicative e ciò consentirà di affiancarsi a loro nel processo educativo.


Dott. Gianfranco De Leonardis


Gianfranco De Leonardis è Dottore in Psicologia, laureato presso l’Università “G. D.’Annunzio” di Chieti. Svolge il tirocinio formativo presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara.


Centro di Psicoterapia Familiare









giovedì 7 novembre 2013

SINDROME DELLA LEONESSA E PATERNITA'

Madri leonesse e difficoltà dei padri ad entrare nel proprio ruolo

Il pater familias ha rappresentato per secoli la funzione del padre all'interno della famiglia. In una rigida ripartizione di funzioni con il ruolo materno, preposto all'educazione più che alla cura dei figli, il padre ha rappresentato in seno alla famiglia la legge e l'ordine, la continuità della tradizione ed ha avviato la prole alla vita sociale.
La figura paterna, che rompe il sodalizio madre-bambino, ha la funzione di distogliere il bambino da un vissuto di totale e continua disponibilità della figura materna.

Se la fusione madre-bambino si protrae nel tempo il padre ne è escluso o si auto-esclude, il rapporto di coppia ne risente creando un vuoto in cui il bambino si annida con il consenso della madre e la complicità del padre (figli che dormono nel lettone e padri sul divano che rinunciano al proprio ruolo di partner e alla propria funzione di oggetto-separatore).

Nell’affermare questo ruolo paterno molto incide l’atteggiamento della madre, ovvero la sua disponibilità ad includere il partner nel dialogo esistente tra lei ed il bambino, di citarlo, di ricordarlo e riconoscerlo come presenza significativa ed autorevole.

Diventa importante, inoltre, che la madre presenti un'immagine forte e degna di stima del padre in quanto per il bambino questo rappresenterà un elemento di grande importanza per la formazione del senso di sicurezza nelle proprie capacità e di autostima. L’essere amati, compresi, guidati da qualcuno che si reputa di valore ha un impatto più positivo sullo sviluppo dell’identità del bambino rispetto al crescere con un’immagine di un genitore che sia stato ripetutamente svalutato e ridicolizzato dall’altro.

Già durante la gravidanza egli è chiamato a svolgere una funzione contenitiva, condividendo con la sua compagna le ansie e le preoccupazioni che le trasformazioni corporee della gestazione possono generare, così come sarà chiamato, alla nascita del figlio, a svolgere una funzione protettiva per la delicata esperienza della coppia madre-bambino. L’idea tradizionale di padre può influire negativamente in questa fase creando distanza.

L'intimo avvicinamento dei padri all'esperienza della maternità può, da un lato far emergere  sentimenti più espliciti di tenerezza e condivisione, dall’altro può far affiorare un naturale senso di esclusione, se non di gelosia o di invidia, sentimenti a cui è spesso difficile dare una collocazione.
Dal punto di vista femminile l’aiuto paterno, seppur sollecitato, viene in determinati casi vissuto come un’invasione di campo. È  una reazione abbastanza comune dopo il parto che se esasperata può trasformarsi in quella che è stata definita “la sindrome della leonessa”.

La sindrome della leonessa è una distorsione della percezione delle cose e degli avvenimenti che circondano una mamma e la fanno diventare ossessivamente gelosa come una leonessa con i suoi cuccioli. Il paragone con la leonessa viene proprio dal modo in cui questo animale vive il rapporto con la propria prole: estremamente possessiva e protettiva, anche a costo della vita. La gelosia nei conforti di un neonato è normale, ma in alcuni casi può diventare patologica e causare nella madre un irrefrenabile istinto a tenerlo tutto per sé, nascondendolo dagli altri.

A volte la gelosia è così forte da considerare pericoloso addirittura il partner.
In una situazione simile si giunge rapidamente a un tracollo dell’equilibrio di coppia, perché l’arrivo di un bambino, benché evento stupendo per entrambi i genitori, porta comunque a una destabilizzazione iniziale, a causa dello sconvolgimento delle abitudini quotidiane e dell’inizio di grandi responsabilità da assumere.

Mentre alcune madri si rendono conto del loro atteggiamento esageratamente protettivo e geloso nei confronti del proprio figlio, altre tendono invece a esacerbarlo, convinte di agire nel modo corretto e giudicano invasivi e inopportuni i consigli da parte di parenti ed amici.
Le donne che vivono la sindrome della leonessa si pongono quindi in fase di difesa, pronte ad aggredire chiunque attacchi il loro cucciolo, anche se la “minaccia” dovesse provenire dal padre.
Le giustificazioni che le stesse donne danno del loro comportamento, denotano un totale distaccamento dalla realtà: hanno, infatti, paura che i propri figli possano essere contagiati da batteri e malattie portate da parenti o amici che potrebbero avere le mani sporche e toccano il bambino; temono che il neonato possa trovarsi a disagio tra le braccia di qualcun altro e che l’unico posto sicuro sia restare nel grembo materno; sono gelose delle troppe attenzioni da parte di terzi intenzionati ad “usurpare” l’affetto materno.

La rabbia che si genera verso gli altri, la gelosia patologica e l’ansia che coglie una madre affetta dalla sindrome della leonessa vanno oltre il semplice istinto materno di difesa.
Il marito, o compagno, di una donna affetta da sindrome della leonessa, dovrebbe cercare una comunicazione diretta, rassicurante, protettiva, con lei, la cui morbosità è probabilmente dovuta ad una insicurezza di fondo, legata alla nostalgia della gravidanza e al momento di felicità, gioia e aspettative vissute in quella circostanza.

Il sentimento predominante nel padre è il sentirsi escluso: esclusione sia dal rapporto madre-figlio che dalla coppia coniugale, il quale viene messo a dura prova dalla lotta per ritrovare una nuova intimità.

Laddove c’è una leonessa escludente, però, spesso c’è un leone che non riesce a reinserirsi nel nuovo menage. Questo accade perché avviene uno spostamento del focus di attenzione che mette l’uomo in crisi rispetto alla sua importanza per la compagna. Se i sentimenti di inadeguatezza che si vengono a formare sono supportati da una personalità insicura del nuovo padre, o da un esempio maschile altrettanto esitante vissuto nella propria famiglia d’origine, le difficoltà a ritrovare la propria collocazione saranno maggiori.

Per i papà, i cambiamenti dettati dall’arrivo di un figlio sono più faticosi e difficili da accettare in quanto, a differenza di una donna, ha una minore possibilità di prepararsi adeguatamente a livello emotivo alla nascita del bambino, perché non vivono sulla propria pelle la gravidanza. La preparazione c’è, ma è sempre ideale e non concreta come il sentire il bimbo nella propria pancia. Inoltre la maggior parte delle donne hanno la possibilità di allattare al seno e questo aiuta le mamme a creare rapidamente un legame emotivo e fisico con il piccolo, mentre i padri possono contribuire soltanto artificialmente.

Rimane, dunque, di fondamentale importanza che il papà instauri fin da subito un legame con il proprio figlio. Per fare questo è importante anche dedicarsi semplicemente al cambio di un pannolino o ad una passeggiata con la carrozzina.

Costruire un rapporto personale con il proprio figlio, fin dai primi vagiti, aiuta i papà a non sentirsi esclusi da questo nuovo menage familiare e la collaborazione della mamma è essenziale. E’ necessario dare importanza alla coppia, parlarsi e non dimenticarsi che è la coppia ad aver scelto di avere un figlio ed è la coppia il fondamento basilare di una famiglia.

Riuscire a passare del tempo insieme, nonostante la stanchezza, e recuperare un minimo di intimità aiuta i neo genitori a non sentirsi esclusi dal rapporto di coppia. La serenità emotiva, fisica e sessuale dei genitori è alla base della serenità del nuovo arrivato.

Il padre non è semplicemente la luce che illumina la diade madre-bambino ma è, assieme a loro, l'essenza di un quadro in cui ogni singola parte ha senso solo in relazione alle altre.


Dott.ssa Teresa Giuzio


Teresa Giuzio è Dottoressa in Psicologia, laureata presso l’Università “G. D.’Annunzio” di Chieti. Svolge il tirocinio formativo presso la Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara.


Centro di Psicoterapia Familiare



venerdì 1 novembre 2013

FAMIGLIE ALLO STADIO

Calcio e tifo nel legame tra padre e figlio


Il legame tra genitore e figlio rinsaldato dalla comune passione per la propria squadra di calcio e l'importanza delle famiglie allo stadio, un tema di grande attualità che è stato approfondito per FORZAPESCARA.TV .

«E’ sabato pomeriggio e come spesso capita specialmente quando c’è un po’ di sole e non fa freddissimo porto mio figlio a vedere la mia squadra del cuore. Ha quattro anni e mezzo, da sempre l’ho portato ad assaporare l’atmosfera, i seggiolini, il campo verde e 22 ragazzi che danno l’anima per mettersi in evidenza. Non nego che è anche un pretesto per vedere qualunque partita giocata con quella maglia, ma cercare di “educare” il bambino e trasmettergli questa passione, come fece mio padre, è il sogno più grande» (Un tifoso dal web). 
Questa è la testimonianza di un tifoso come molti, che comunica attraverso le sue parole, la sua grande passione per il gioco del calcio, ormai un culto a livello nazionale quanto mondiale. Portare i propri figli allo stadio è un modo di lasciare traccia di sé, della propria dedizione ad un interesse che si tramanda di generazione in generazione. Si tratta quindi di un modo alternativo di interpretare l’intensità di un legame forte come può essere quello tra genitore e figli, in particolare tra padre e figlio quando si tratta di calcio.
Ci sono tanti motivi per i quali il calcio piace e appassiona un numero così rilevante di persone. Ciò che ne esprime la vera essenza è la possibilità di sentire sulla pelle le emozioni che trasmette nella consapevolezza che sono le stesse di chi ti sta affianco. In questo contesto, perciò, condividere significa “dividere con” qualcuno i significati delle azioni in campo, le scelte dei suoi protagonisti, l’attesa del goal, l’esultanza della vittoria. Poterlo fare con una persona di famiglia come il proprio figlio è l’apice del’appagamento e racchiude in sé una funzione importantissima, ossia quella di tramandare questa passione che rafforzerà nel tempo il legame di unione tra i due consanguinei.
Per un genitore che porta la famiglia a vedere la partita, lo stadio rappresenta, con grande probabilità, un luogo che egli stesso nell'infanzia ha imparato a conoscere ed amare in compagnia di suo padre e che ora, in una nuova veste, vive con la sua prole. In questa sorta di passaggio del testimone, adesso è lui a trasmettere il significato di questa esperienza. Inoltre, vedere sugli spalti una donna in dolce attesa è conferma che ci sarà una continuità generazionale di questo interesse.
L’età tipica di “iniziazione” dei bambini allo stadio è intorno ai quattro anni, quando il papà esce dalla sola funzione di sostenitore della maternità della compagna e può assumere realmente il suo ruolo scoprendo il valore del sentirsi pienamente padre. In questo momento di crescita del bambino il triangolo familiare è formato in ogni sua parte e il padre, da regolatore di una relazione a due (madre/bambino), è ora sempre più impegnato ad assolvere ai compiti tipici del Paternage (inteso come cura, dolcezza, autorevolezza, dimensione etica e delle regole trasmesse e condivise). Deve quindi rispondere emotivamente ai bisogni del figlio, ma anche insegnargli a vivere nella società e ad adattarsi alle richieste esterne e, poiché il bambino comunica attraverso il gioco, quello sportivo risulta il contesto migliore per aiutare il genitore in questo compito evolutivo. Si tratta di una vera e propria forma di trasmissione del mandato familiare, vale a dire il compito più o meno esplicito assegnato ai membri di una famiglia riguardo a una serie di ruoli da ricoprire e di scelte da fare.
La prima volta allo stadio resta indimenticabile per ogni bambino come per il genitore che vede la faccia del figlio nel momento in cui finalmente si trova sulle gradinate, paralizzato con la bocca aperta. In quell'istante diventa chiaro che anche lui è conquistato dalla magia dello stadio e che da quel momento in poi i due avranno per tutta la vita almeno una passione da condividere.
A rinforzare questa nuova unione ci sono inoltre i rituali: piccoli gruppi di bambini accompagnati da qualche adulto prendono posto sugli spalti, tutti bardati dai colori della propria squadra, ognuno con la maglia personalizzata di nome e numero del proprio idolo (spesso corrispondente allo stesso del padre); gli stessi bambini che intonano strofe di cori in attesa dell’ingresso della squadra e che si siedono rigorosamente nello stesso ordine dell’ultima partita a cui hanno assistito e da cui sono usciti vincenti. Le sciarpe agitate da piccoli diventano parte dell’arredamento della propria stanza ed assumono un valore affettivo incomparabile.
Il vivere insieme questa esperienza diventa importante al punto che se uno dei due è impossibilitato l’altro difficilmente decide di parteciparvi senza; il legame che si crea in questi eventi è di pura complicità tanto che l’uno può sentirsi incompleto senza l’altro o sentire di tradirlo se decidesse di partecipare comunque.
Si dice che più che il primo bacio, per tutta la vita il tifoso ricorda la sua prima partita vista allo stadio di cui per anni ha conservato il biglietto nel diario scolastico. Mantenere questa tradizione nonostante le difficoltà di oggigiorno è fondamentale perché rappresenta una possibilità di rinsaldare il legame tra padre e figlio attraverso passione, dedizione, complicità e condivisione, tutti elementi distintivi della famiglia.


Dott.ssa Ivana Siena