Dalla gravidanza all'essere madre
La
gravidanza in sé porta la donna a dover affrontare una serie di compiti
adattivi e trasformativi che vengono attivati sia dai cambiamenti somatici che
da quelli psichici.
Come affermato da Ammaniti nel 1992 (Ammaniti M., “Pensare per due”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008), la stretta
relazione tra la dimensione corporea e quella mentale portano la donna a
ripiegarsi da un lato su se stessa, ritirandosi in una sorta di fusione mentale
con il feto e dall’altro ad identificarsi con una madre che saprà prendersi
cura del proprio bambino.
A differenza di altre forme di
patologia psichiatrica, in cui le alterazioni del comportamento presentano
forme più evidenti, nella depressione post natale non sembra emergere nulla:
queste donne sono tormentate da pensieri ossessivi, dal carattere talmente
coercitivo da travolgere ogni tentativo di contenimento.
Chi è vicino non si rende conto
dell’oscuro malessere che le tormenta e che, nella maggior parte dei casi,
viene tenuto sotto controllo ma che, in alcune situazioni, può improvvisamente
insorgere, come a seguito di un corto circuito mentale imprevedibile.
Questi casi non sono rari: infatti una
donna su dieci durante la gravidanza e nel primo anno di vita del figlio va
incontro ad un disturbo depressivo, ben diverso dalla più che normale reazione
fisiologica depressiva che si verifica subito dopo il parto.
Non necessariamente un rischio
depressivo nella madre determinerà problemi nel suo rapporto con il figlio, dal
momento che la nascita di quest’ultimo rappresenterà una grande occasione di
cambiamento che spesso favorisce l’acquisizione di una migliore organizzazione
psichica.
La sofferenza che queste donne si
portano dentro è tale da rendere la gravidanza un peso troppo gravoso per loro.
I loro pensieri negativi possono diventare talmente intrusivi da polarizzare
quasi completamente il loro mondo psichico; in casi più gravi può accadere che
la donna, non vedendo vie di fuga, maturi l’idea del suicidio oppure che arrivi
a sopprimere il proprio figlio dopo la nascita, vedendo in tale gesto l’unica
possibilità reale di evitargli sofferenze che il futuro, secondo le sue
fantasie, gli riserverebbe.
Questi pensieri intrusivi, associati a
comportamenti materni potenzialmente violenti, si avvicinano al disturbo
ossessivo-compulsivo, dal momento che possono essere legati ai comportamenti di
verifica compulsiva messi in atto dai genitori. Le loro idee ossessive ( ovvero
idee avvertite come angoscianti che si impongono alla loro coscienza come
parassiti e che non possono essere eliminate con la volontà) riguardano
pensieri di fare del male al bambino, di poter perdere il controllo, di
impazzire o di potersi fare del male.
A partire da alcuni studi condotti da
Winnicott, Leckman e collaboratori nel 1999, si è messo in luce che nelle prime
due settimane successive al parto, i genitori hanno pensieri insistenti sul
figlio: circa il 95% delle madri e l’80% dei padri presenta preoccupazioni
riferite allo stato di salute del bambino; nel caso di genitori che aspettano
il primo figlio, compaiono anche preoccupazioni riguardanti le modalità di
accudimento.
Bisogna anche sottolineare che durante
la gravidanza, il 37% dei genitori riporta pensieri insistenti, seppur fugaci,
di fare del male fisico al proprio figlio, come scuoterlo, colpirlo oppure
buttarlo giù da un edificio.
Il fattore più insidioso della
depressione materna è rappresentato dal fatto che, nella maggior parte dei
casi, questa non viene riconosciuta e compresa: questo, ostacola e peggiora la
condizione materna.
La pressione sociale che la madre
depressa si trova a dover affrontare, può essere così forte da produrre in lei
sentimenti di vergogna o di colpa, dal momento che non riesce come dovrebbe e
come gli altri si aspettano ad essere felice di aspettare o di avere un
bambino.
Nel patrimonio della specie umana è
profondamente radicata l’idea della capacità di prendersi cura dei propri
figli. Questa predisposizione innata è stata descritta nel 1996 da George e
Solomon nel costrutto di “caregivingsystem”, in base al quale, a partire dalla
prima adolescenza, si comincia a sviluppare un’attitudine genitoriale che potrà
realizzarsi pienamente in corrispondenza dell’attesa e della nascita di un
bambino.
Nel casi delle madri depresse, però, si
assiste alla messa in atto di comportamenti difensivi che Guedeney ha descritto
come il paradosso della madre depressa: la donna ritiene di non avere il
diritto di sentirsi triste o infelice o depressa in un momento che dovrebbe
essere caratterizzato, come detto, secondo il senso comune, da grande felicità
e senso di realizzazione; nel momento in cui ella riconosce la propria
depressione tende a giudicarsi in termine morali considerandosi una cattiva
madre. Di conseguenza, non è in grado di comunicare alle persone a lei più
vicine le sue preoccupazioni e finisce per chiudersi in un universo abitato
solo da pensieri terribili.
Pertanto, la depressione può
interferire con la capacità della madre di prendersi cura del figlio.
La depressione post partum, o PND,
rientra in un quadro patologico di gravità media ed è considerata l’espressione
più comune della patologia post partum.
Si verifica nel 10% circa delle
nascite, è più frequente nelle madri-adolescenti, può durare qualche settimana
ma anche qualche mese, posto che una delle sue caratteristiche è un’evoluzione
sotto tono che tende alla cronicità.
Se non riconosciuta e trattata può
continuare anche dopo un anno dall’esordio e ampliare così in termini
indefiniti le ripercussioni negative sul bambino.
Tra le manifestazioni allarmanti della
depressione post partum si devono considerare i tentativi di suicidio ( sotto
il profilo psicologico) della madre, dei quali, invece, viene fatto oggetto il
figlio.
La genesi di tutto ciò è una fantasia
(conscia o inconscia) secondo cui il bambino soffre e soffrirà ogni sorta di
male, da cui solo la morte potrà salvarlo.
Le dinamiche inconsce del filicidio, in
questo caso, implicano la proiezione di sé o, quanto meno, di una parte di sé
sul bambino. La morte del bambino implica, alla luce di questa fantasia, il
solo modo di eliminare il terrore e al tempo stesso di liberarsi da ciò che
genera terrore.
Dott.ssa Valentina Mossa
Psicologa, laureata presso l'Università G. D'Annunzio di Chieti (CH), impegnata nel tirocinio formativo presso l'associazione Obiettivo Famiglia Onlus di Pescara (PE).
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