LA
FAMIGLIA DI FRONTE ALL’HANDICAP
I legami che uniscono i membri di una
famiglia hanno caratteristiche ben definite: sono fortemente vincolanti,
presentano cioè una libertà limitata; sono strutturati secondo una gerarchia;
sono fondati su processi di reciprocità e di reciproca lealtà.
Per
quanto riguarda la gerarchizzazione dei rapporti essi sono prevalentemente
regolati in base alle generazioni.
Queste
considerazioni sono da tenere presenti anche nel caso delle presenza di un
figlio che presenta un handicap, che pur limitandone l’autonomia, non ne
annulla comunque un’evoluzione parziale verso forme ed esigenze di vita adulta.
Gli aggiustamenti da trovare saranno più complessi non potendo contare su
parametri socialmente riconoscibili e condivisi. Il cammino verso il ruolo
adulto andrà incoraggiato anche dai genitori, che tendono a viverlo come
“figlio per sempre”.
Per
quanto riguarda la relazione di
attaccamento va sottolineato che essa regola anche il concetto di lealtà, di affidabilità del legame.
Boszormenyi-Nagy
e Spark mette in luce gli aspetti di dovere del legame, dovere che si esprime
secondo leggi che implicitamente lo governano, “fibre invisibili, ma solide”
che vincolano le relazioni familiari. Gli autori ipotizzano la presenza di
“conti” inconsci tra il dare e l’avere del legame familiare, conti che debbono
essere saldati secondo criteri di giustizia, pena l’esperienza del malessere
psicologico.
Può
apparire che il soggetto disabile sia sotto questo profilo, inadempiente,
sempre creditore e mai debitore nella relazione.
Se
opportunamente condotto nella propria strada di sviluppo, il disabile può
“pagare” almeno in parte e con forme simboliche, il suo debito alle generazioni
precedenti non solo con il riconoscimento affettivo ma anche operativamente,
facendo esperienza di valorizzazione di se stesso e di “consolazione” verso gli
altri membri della famiglia.
Se
torniamo al concetto di famiglia come sistema capace di conservazione dei
propri livelli organizzativi e di cambiamento vedremo che sarà sempre
necessario al suo interno una forma di negoziazione. Ciò che deve essere
maggiormente negoziato in ogni sistema è la distanza
interpersonale tra i membri che include chi è dentro e chi è fuori dalla
famiglia.
Minuchin
ha descritto le famiglie in base agli stili che la caratterizzano, mettendo in
luce i termini di distanza e vicinanza interpersonale:
-
Disimpegnate:
caratterizzate da una grande distanza psicologica e affettiva tra i membri, con
poca condivisione e legami di attaccamento di tipo evitante. Questo tipo di
famiglia tenderà a sottovalutare le difficoltà del soggetto disabile, che si
troverà solo di fronte ai suoi limiti;
-
Invischiate: tutti i
membri della famiglia si occupano degli affari di tutti, mostrando forme di
attaccamento ansioso-ambivalente, che rendono faticoso un processo di
individuazione e separazione tra i membri. La famiglia del disabile apparirà
iperprotettiva e faticherà a vedere le risorse evolutive del disabile,
limitandolo nell’esplorazione con il contagio della propria ansia.
In
ogni situazione familiare i compiti di assistenza e di lealtà reciproca, di
vicinanza o di distanza interpersonale, possono essere utilizzati per
esercitare espressioni di potere: anche in nome della malattia è possibile
esercitare un potere, e nascondersi dietro ad essa, manipolando inconsciamente
gli equilibri del rapporto e stravolgendo perfino l’ordine generazionale.
Analizzeremo
ora come questo avvenga nella coppia, nella famiglia estesa e tra i fratelli.
La coppia
e l’assistenza
Nella
società attuale nell’ambito lavorativo la donna e l’uomo sono considerati
intercambiabili, mentre nell’area domestica le mansioni sono rimaste fissate
nell’organizzazione tradizionale: è frequente perciò che la donna abbia di
fatto un doppio lavoro, uno come casalinga e uno come lavoratrice con reddito
proprio.
La
posizione della donna, già faticosa in condizioni consuete, diventa drammatica
con l’ingresso nella famiglia della disabilità.
Accade
perciò che donne/madri interessate al proprio lavoro si trovino improvvisamente
ad un bivio esistenziale penosissimo: il dover scegliere tra il bene del
proprio caro e la propria realizzazione personale. Tutta la comunità, compreso
il padre e i riabilita tori avvallano la teoria del sacrificio, non prevedendo
gli effetti nefasti sulla relazione familiare di un sentimento depressivo della
donna, suscitato dalla convinzione di aver fatto una rinuncia troppo grande.
Che
cosa accadrà, per esempio, tra madre e figlio se questi non sarà in grado di
ricompensare il sacrificio materno con risultati brillanti nella
riabilitazione? E ancora: quale sottile potere sarà dato in mano al figlio che
può frustrare la madre che ha riposto in lui la sua autostima? Quale responsabilità
toccherà al padre, che ha richiesto implicitamente alla propria compagna il
sacrificio della realizzazione professionale?
L’handicap,
come abbiamo accennato, si presta meravigliosamente ad essere un paravento
dietro cui si possono nascondere fini occulti di controllo e di potere: la
richiesta di assistenza completa da parte di una moglie richiesta dal marito
può nascondere il desiderio intimo di renderla dipendente; la coalizione
moglie-madre può essere un tentativo di escludere il coniuge, considerato
incapace, dalle scelte familiari nei confronti del disabile….
Anche
nei casi più fortunati in cui i coniugi riescono a conservare l’alleanza di
coppia, il problema di sentire il figlio come perpetuo terzo pone un’alta
carica di ansia verso prospettive future, con perdita per entrambi di uno
spazio indispensabile all’esperienza duale.
Nelle
malattie degenerative, ad esempio, la diagnosi pone la famiglia di fronte alla
famiglia un verdetto tragico in cui è contemplato solo un peggioramento
progressivo che non di rado ha come esito la morte. La coppia deve perciò
abbandonare bruscamente il proprio progetto di vita, progetto che lascia spesso
il posto unicamente alle aspettative di morte. L’improvvisa transizione fa
riemergere a livello conscio l’intera storia familiare e personale con tutto il
suo bagaglio di risorse ma anche di aree problematiche, talvolta inespresse.
Ecco allora che sensi di colpa per mancanze vere o presunte, rimpianti per
progetti irrealizzati, sofferenze per lutti non elaborati, irrompono in questo
scenario già saturo di angoscia scatenando una reazione di negazione e di fuga.
La coppia cercherà di ricercare un tempo “riparatorio” per rinforzare il
cordone difensivo per immobilizzare il tempo e lo spazio: lo spazio diventa
statico ed il tempo negato.
In
questo senso il terapeuta della famiglia si dovrà da “ponte”, ovvero come
interlocutore per coniugare le scelte dei genitori e le esigenze del figlio.
LA
FAMIGLIA NUCLEARE E LA FAMIGLIA ESTESA
Le
famiglie quando incontrano difficoltà, non tendono a ricorrere immediatamente
all’aiuto dei servizi pubblici, ma cercano piuttosto l’appoggio della
parentela.
Il
problema della giusta distanza dalle famiglie di origine, senza né vissuti di
abbandono ed emarginazione, né di delega o squalifica può sembrare
insormontabile: se saranno disponibili a lasciarsi coinvolgere, in tempi
successivi potrebbero diventare fonte di interferenze; se non saranno
disponibili presenteranno una delusione così amara da riuscire perfino
intollerabile.
I
processi di inclusione/esclusione più evidenti sono quelli diretti verso membri
significativi della famiglia estesa: sono, infatti, una sorta di vaso
comunicante con la famiglia nucleare, verso cui e da cui rifluiscono le
situazioni di disagio emotivo.
E’
frequentissimo notare che la solidarietà affettiva offerta da coloro che sono
vicini al nucleo familiare viene utilizzata per ri-investire legami che in
passato avevano lasciato insoddisfatti. Nasce la comprensibile aspettativa che
in presenza di una così grande sventura sarà possibile ricevere quella
gratificazione affettiva, prima sospirata invano. Speranze abbandonate,
aspettative affettive deluse, ritornano in campo, poiché inconsciamente ognuno
sente che la tragedia rende ottenibile ciò che prima, in condizioni normali,
era stato negato.
CONVIVERE
CON UN FRATELLO DISABILE
Molto
importante è la posizione in cui vengono a trovarsi i fratelli sani, che più di
tutti risentono della modalità utilizzata dalla famiglia per fronteggiare
l’angoscia del trauma. Il comportamento dei genitori costituisce, infatti, un
potente segnale per i figli i quali spesso vi si adeguano, adottandolo come un
codice di riferimento. L’iperprotettività dei genitori verso il disabile, per
esempio, sarà assunta come norma dagli altri figli i quali si sentiranno in
dovere di provvedere al fratello in modo da inibire ogni suo sforzo di
autonomia. Per contro atteggiamenti di rifiuto e di emarginazione del disabile
autorizzeranno i fratelli ad allontanarsi da lui.
Di
norma nella famiglia “normale” la scala valoriale assunta dai figli, sul
modello proposto dagli adulti, è solitamente improntata sulla protezione,
definendo così due ruoli:
-
Quelli che proteggono: gli adulti e i figli
maggiori (anche se hanno sei anni)
-
Quelli che ricevono protezione: figli minori e
disabili (indipendentemente dalla sua età cronologica).
Agli
occhi dei genitori il figlio disabile è per definizione non autonomo: il suo
effettivo bisogno di aiuto in alcuni settori si allarga spesso a macchia
d’olio, così che il più delle volte il soggetto viene considerato disabile in
tutto e per tutto. Per contro gli altri figli ricevono prematuramente la
patente di autonomi, di “grandi”, “di quelli che ragionano”, assai prima di
meritarla, o di averla desiderata, o di essere in grado di utilizzarla con
profitto.
I
figli possono essere interlocutori gratificanti dei genitori, dando loro una
diversa visione del futuro; se maggiori del bambino compromesso, possono essere
di appoggio e di aiuto nel crescerlo. I fratelli sani stimolano il fratelli
disabili, distolgono l’attenzione angosciosa dai suoi problemi imponendo le
proprie, più gratificanti, esigenze di crescita; danno soddisfazioni ripagando
gli sforzi educativi dei genitori e compensandoli delle delusioni che ricevono
dal fratello compromesso.
I
fratelli sani possono essere gelosi delle eccessive attenzioni che il disabile
riceve e dare a propria volta preoccupazioni con comportamenti inaccettabili.
Essi
possono sentire le richieste dei genitori come eccessive e rifiutarsi di soddisfarle.
Tuttavia se la compromissione del figlio disabile è seria, inevitabilmente ai
fratelli sani viene fatto carico di funzioni genitoriali sostitutive che con il
procedere della crescita, possono indurre in loro un grave vissuto depressivo.
Portare la responsabilità di un soggetto compromesso, già pesante per un
adulto, funziona da inibitore per un ragazzo in evoluzione che dovrebbe
concentrare tutte le sue forze nell’espandere se stesso e proiettarsi nel
futuro.
Purtroppo
l’età dei genitori che avanza e la fatica di lasciar emancipare proprio quei
figli da cui si sono ricevute gratificazioni rendono estremamente forte la
tentazione di trattenerli, mettendo loro dinanzi il fratello bisognoso.
Considerando
poi anche il caso fortunato in cui l’emancipazione dei figli sani proceda per
il meglio ed essi si dedichino a costruire un proprio futuro autonomo, pesa
comunque su di loro la consapevolezza di dover subentrare ai genitori nei
compiti di assistenza quando questi per l’età, la malattia, o la morte non potessero
più farvi fronte. Coloro che reagiscono a tale responsabilità con rifiuto o
ribellione spesso si trascinano per tutta la vita un profondo senso di colpa;
per contro la possibilità di riuscire a recuperare una vicinanza con il
fratello disabile riuscendo a tollerare la propria impotenza di fronte alla sua
sofferenza riuscirà in seguito ad attenuare il senso di colpa per le gelosie,
le piccole mancanze vissute nei suoi confronti in passato ed in ultima analisi
di essere sani.
Centro di Psicoterapia Familiare
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