DROP OUT E RESILIENZA PER AFFRONTARE IL CAMBIAMENTO
Drop out è un termine inglese che descrive l’interruzione di un
qualsivoglia percorso formativo o lavorativo di una persona relativamente
giovane. Uso il termine “relativamente” in quanto la letteratura sul drop out è
concentrata intorno al mondo dei giovani, il quale mette maggiormente in
allarme e desta non poche preoccupazioni visto il rischio che tale fenomeno
rappresenta per la realizzazione personale e professionale di questa categoria.
Tuttavia, come esposto di seguito, può coinvolgere anche fasce d’età più avanzate,
seppur in modo diverso.
L’abbandono scolastico, la
sospensione di un percorso formativo, il passaggio attraverso molteplici
tipologie di lavoro, l’interruzione di un’attività sportiva, sono tutti esempi
di come un drop out possa insidiarsi nella vita di una persona condizionandone
il proseguimento ed eventuali sbocchi futuri.
Anche in ambito
sportivo si parla
molto di drop out adolescenziale, legato quindi ad una fase preliminare in cui
il giovane atleta deve decidere se lo sport che sta praticando è davvero ciò
che desidera portare avanti con continuità e, magari, a livello agonistico.
Diventa qui importante che il ragazzo riesca a discernere tra le sue
reali aspirazioni e le aspettative genitoriali, che sappia gestire i cali di
motivazione, le relazioni tra pari nel gruppo (qualora si trattasse di uno
sport di squadra), senza sottovalutare i continui cambiamenti corporei e
psichici, spesso minacce all’autostima già di per sé fragile.
L’insieme di tutti questi fattori,
se non adeguatamente affrontati, può portare ad un abbandono dell’attività
sportiva intrapresa, lasciando un enorme punto interrogativo sui possibili
esiti lavorativi e un enorme rischio di patologie legate alla depressione.
Come già accennato, il drop out non
è un fenomeno legato solo a questa fase di vita, ma, nel senso più autentico
del termine, può
rappresentare un abbandono anche a carriera inoltrata. Si pensi ad esempio agli sportivi
vittime di infortuni o di incidenti dentro e fuori l’attività sportiva.
Qualsiasi sia il trauma fisico subito da un atleta che basa la sua carriera su
un determinato sport, l’interruzione forzata rappresenta un’enorme prova di
vita che gli fa vivere fasi di elaborazione dell’accaduto simili a quelle del
lutto.
L’atleta che incontra un infortunio
o subisce un incidente, per quanto abbia scongiurato il pericolo di
morte, si trova ad affrontare una situazione del tutto inattesa, un evento
chiamato paranormativo (non prevedibile) nella sua carriera, che mette a dura
prova le capacità della persona di trovare un nuovo equilibrio e superare
questa fase più o meno transitoria. È un evento che lo coglie impreparato,
difficile da accettare, quando particolarmente invalidante, e che ridimensiona
la sua idea illusoria di infallibilità.
I vissuti rispetto al cambiamento
imposto diventano così associabili a quelli provati di fronte ad una perdita,
solo che questa volta lo sportivo perde qualcosa di sé, una capacità, la
sicurezza nelle proprie forze, nei casi peggiori una parte del suo corpo, un
pezzo della propria autostima, la completezza nel senso di identità personale e
professionale fin’ora raggiunta.
Come per il lutto quindi, ci si
trova ad attraversare delle vere
e proprie fasi emotive prima
di potersi ricollocare nel mondo dello sport:
La prima è solitamente denominata fase dello shock e della negazione in cui lo sportivo vive sentimenti che
passano dal dolore per l’accaduto all’apatia, dall’incredulità al senso di
impotenza e di inutilità. L’atleta
può vivere un vero e proprio distacco affettivo e/o emozionale.
La seconda fase è quella della rabbia unita al
senso di colpa: qui è frequente il sentimento di collera
nei confronti del fato, dei medici, di Dio ed anche verso se stessi.
L’accettazione dell’accaduto è ancora parziale e spesso si traduce in un
iniziale rifiuto di prestarsi alle cure mediche e riabilitative misurandosi con
la frustrazione del “se e quando” sarà possibile tornare a gareggiare o
giocare.
Si passa poi alla fase della contrattazione che si esprime in un primo movimento
verso il riconoscimento della perdita, ma con il tentativo di venire a patti
(Cosa posso provare a fare per tornare come prima? Quali altre figure mediche
posso contattare? Quali altre terapie?).
La fase più dolorosa è quella
depressiva in cui ci si arrende razionalmente ed emotivamente alla situazione.
Queste reazioni sono normali e
variano in relazione alla personalità dell’atleta, alla gravità dell’infortunio
e al periodo agonistico in cui si trova e, di conseguenza, anche i tempi di
reazione restano variabili.L’ultima fase infatti è la reintegrazione in cui ci si riconcilia
definitivamente con la realtà delle condizioni fisiche e ci si attiva
mentalmente per il recupero o per il reinvestimento delle capacità residue in
nuove attività.
Il trauma porta al drop out
violento, non voluto, non deciso. Veste l’atleta di vulnerabilità, lascia la
sua ferita (fisica o psichica) sempre esposta al sale della sfiducia e del
pessimismo. Nella vita, però, si cade per imparare a rialzarsi e il motore di
questo movimento si chiama “resilienza”.
Ne sanno qualcosa Oscar Pistorius e Alex Zanardi,
due egregi esempi, tra i tanti, di come pur vivendo una fragilità traumatica e
non prevista, si possa diventare maestri nella propria disciplina o
reinventarsi da zero sperimentando nuove capacità.
Attraverso la resilienza si può
combattere l’autocommiserazione e si possono trasformare le difficoltà nella
scoperta di nuove potenzialità, ci si può servire della sofferenza per acquisire nuove abilità
per rispondere alle nuove situazioni che la vita riserva. La resilienza può
essere accresciuta attraverso un intervento terapeutico, ma spesso si dimentica
che è una dote di cui ognuno di noi è fornito in maniera naturale, basta
volerla ricercare e far emergere al meglio delle proprie capacità.
Dott.ssa Ivana Siena
Centro di Psicoterapia Familiare
Fonte: http://www.forzapescara.tv
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