Calcio e Depressione
Uno dei disturbi psichici
rispetto al quale sono stati maggiormente studiati i collegamenti con lo sport
è la depressione. Considerando questi due ambiti appare scontata la concezione
secondo cui lo sport è una delle maggiori risorse per uscire dal tunnel di una
patologia così invalidante come la depressione. Se si pensa che lo stesso
termine depressione implica una “mancanza di pressione”, che sia
fisiologica (dovuta quindi a un calo di produzione di endorfine) o più
semplicemente legata ad un atteggiamento nei confronti della vita, è chiaro che
la pratica sportiva rappresenta una potenzialità riabilitativa, nonché
risolutiva, di questo male.
Ciò che interessa però in questo
contesto è capire come possa avvenire il processo inverso, ossia cosa accade
nella mente di determinati atleti, dalle note capacità, che imboccano e
percorrono una strada di cui non riescono a vedere la via d’uscita.
In generale in tutti gli sport,
ma nello specifico nel calcio, è necessario
fare una netta distinzione tra coloro che a fine carriera trovano
maggiore difficoltà a reinventarsi e ricollocarsi nel nuovo stile di vita e
coloro che cadono nell’oblio del male oscuro mentre ancora sono messi alla
prova dai ritmi frenetici della professione scelta.
Nel primo caso il “pensionamento”
avviene in un’età in cui si è relativamente giovani, quindi ancora con la
voglia di fare e, essendo un mestiere legato anche all’immagine, di essere qualcuno. Da personaggio si torna ad essere persona e
questo passaggio somiglia a una traumatica perdita d’identità; avviene così che
grandi atleti finiscono per rifugiarsi nella tristezza, nel proprio mondo interiore
fino a rimanervi bloccati. Si perde l’unione con la propria essenza che, fino a quel momento, era stata inevitabilmente
sostituita da un ruolo mirato verso un unico obiettivo, riuscire in campo. Riabilitare
le papille gustative al nuovo stile di vita, più calmo e privo di quella
pressione tanto odiata quanto necessaria, si traduce in una ridotta capacità di
percepire i propri sensi e quindi se stessi. La famiglia in questa fase è
importantissima per il nuovo adattamento, fermo restando che gli eccessi dello
stile di vita vissuta ne abbiano preservato la sopravvivenza.
Il gioco del calcio è uno degli
sport più famosi e seguiti nel mondo. È un gioco complesso e ricco di
sfaccettature. Porta i suoi protagonisti lontano da casa e famiglia in una fase
di vita più che delicata, tra adolescenza e post-adolescenza. Questi piccoli
uomini vengono catapultati in un mondo fatto di popolarità e riflettori accesi
24h al giorno e il rischio di un “surriscaldamento” è fisiologico.
Nei campionati di serie A la
pressione è costante con dei picchi che si innalzano a partire dal momento del
ritiro fino all’uscita dal campo a fine partita. Per molti il successo è
un’occasione per vedersi riconoscere nelle proprie capacità e non solo:
tifoserie, assegni sempre più cospicui, eventi mondani dedicati, cerchie di
donne bellissime e personaggi famosi che fino all’adolescenza si potevano
guardare solo attraverso la televisione, ora diventano una realtà tangibile. E
ancora, per alcuni, la popolarità rappresenta la rivincita verso una vita di
povertà dove il pallone si trasformava in un rifugio da cattive compagnie e
abitudini dannose.
Una volta conquistate tutte
queste piccole mete l’incubo diventa reggere la pressione, cercare di non
essere tagliati dalla squadra, il timore di non comparire sulle pagine dei
giornali e di essere dimenticati dai media. La testimonianza più esplicita
rispetto a questo lato della fragilità del calciatore viene da Martin Bengtsson che nella
sua autobiografia Nell’Ombra di San Siro
spiega: “Sei solo, lontano da casa e hai
già sperimentato soldi e successo: puoi perdere l’equilibrio. Le aspettative
stritolano. La depressione è la prima minaccia per un giovane calciatore”.
Un giorno Martin torna nel suo appartamento, mette su un disco di David Bowie e
si taglia le vene. Lo salva la donna delle pulizie che lo trova per caso in un
bagno di sangue.
Il calcio è un reality a livello
mondiale e come in ogni reality ci sono protagonisti che mostrano più o meno
apertamente la loro personalità, le loro debolezze. Una depressione non è però
funzionale a mantenere la facciata, pertanto deve essere mascherata il più
possibile. Accade così che un campione come Gary Speed, all’epoca commissario
tecnico del Galles, scuote il mondo del pallone una domenica mattina
togliendosi la vita nella sua abitazione nel Chesire. Un gesto considerato come
unica soluzione da chi soffre di depressione e che nella sua tragicità ha però
spinto molti altri giocatori a richiedere una aiuto psicologico concreto. In
Inghilterra è nato anche un servizio telefonico specifico ad accogliere
richieste d’aiuto di questo tipo, dove giocatori ed ex giocatori possano
trovare un antidoto al mal di vivere.
Per quanto ci possano essere
cause comuni, l’insorgere di una depressione deve essere interpretata nella
specificità del caso singolo, considerando la storia personale e le esperienze
proprie del giocatore in questione. I segnali di un malessere simile possono
variare dallo shopping compulsivo al ricorrere all’alcool, dal gioco d’azzardo
alla forte crisi coniugale, il denominatore comune è il senso di solitudine per
il quale non si vede via d’uscita.
Un ultimo doveroso esempio viene
dall’attaccante Marco Bernacci, il quale abbandonò il Torino dopo appena una
giornata di campionato. Si parlò, a denti stretti, di stato depressivo. Un anno
dopo, Bernacci è tornato a giocare, nel Modena, e a segnare. Lui tra i due
colori del pallone da calcio ha scelto il bianco e ce l’ha fatta.
Dott.ssa Ivana Siena
Fonte: FORZAPESCARA.TV
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