martedì 5 marzo 2013

PSICOLOGIA DELLO SPORT


Calcio e Depressione



Uno dei disturbi psichici rispetto al quale sono stati maggiormente studiati i collegamenti con lo sport è la depressione. Considerando questi due ambiti appare scontata la concezione secondo cui lo sport è una delle maggiori risorse per uscire dal tunnel di una patologia così invalidante come la depressione. Se si pensa che lo stesso termine depressione implica una “mancanza di pressione”, che sia fisiologica (dovuta quindi a un calo di produzione di endorfine) o più semplicemente legata ad un atteggiamento nei confronti della vita, è chiaro che la pratica sportiva rappresenta una potenzialità riabilitativa, nonché risolutiva, di questo male.
Ciò che interessa però in questo contesto è capire come possa avvenire il processo inverso, ossia cosa accade nella mente di determinati atleti, dalle note capacità, che imboccano e percorrono una strada di cui non riescono a vedere la via d’uscita.
In generale in tutti gli sport, ma nello specifico nel calcio, è necessario  fare una netta distinzione tra coloro che a fine carriera trovano maggiore difficoltà a reinventarsi e ricollocarsi nel nuovo stile di vita e coloro che cadono nell’oblio del male oscuro mentre ancora sono messi alla prova dai ritmi frenetici della professione scelta.
Nel primo caso il “pensionamento” avviene in un’età in cui si è relativamente giovani, quindi ancora con la voglia di fare e, essendo un mestiere legato anche all’immagine, di essere qualcuno.  Da personaggio si torna ad essere persona e questo passaggio somiglia a una traumatica perdita d’identità; avviene così che grandi atleti finiscono per rifugiarsi nella tristezza, nel proprio mondo interiore fino a rimanervi bloccati. Si perde l’unione con la propria essenza che,  fino a quel momento, era stata inevitabilmente sostituita da un ruolo mirato verso un unico obiettivo, riuscire in campo. Riabilitare le papille gustative al nuovo stile di vita, più calmo e privo di quella pressione tanto odiata quanto necessaria,  si traduce in una ridotta capacità di percepire i propri sensi e quindi se stessi. La famiglia in questa fase è importantissima per il nuovo adattamento, fermo restando che gli eccessi dello stile di vita vissuta ne abbiano preservato la sopravvivenza.
Il gioco del calcio è uno degli sport più famosi e seguiti nel mondo. È un gioco complesso e ricco di sfaccettature. Porta i suoi protagonisti lontano da casa e famiglia in una fase di vita più che delicata, tra adolescenza e post-adolescenza. Questi piccoli uomini vengono catapultati in un mondo fatto di popolarità e riflettori accesi 24h al giorno e il rischio di un “surriscaldamento” è fisiologico.
Nei campionati di serie A la pressione è costante con dei picchi che si innalzano a partire dal momento del ritiro fino all’uscita dal campo a fine partita. Per molti il successo è un’occasione per vedersi riconoscere nelle proprie capacità e non solo: tifoserie, assegni sempre più cospicui, eventi mondani dedicati, cerchie di donne bellissime e personaggi famosi che fino all’adolescenza si potevano guardare solo attraverso la televisione, ora diventano una realtà tangibile. E ancora, per alcuni, la popolarità rappresenta la rivincita verso una vita di povertà dove il pallone si trasformava in un rifugio da cattive compagnie e abitudini dannose.
Una volta conquistate tutte queste piccole mete l’incubo diventa reggere la pressione, cercare di non essere tagliati dalla squadra, il timore di non comparire sulle pagine dei giornali e di essere dimenticati dai media. La testimonianza più esplicita rispetto a questo lato della fragilità del calciatore viene da Martin Bengtsson  che nella sua autobiografia Nell’Ombra di San Siro spiega: “Sei solo, lontano da casa e hai già sperimentato soldi e successo: puoi perdere l’equilibrio. Le aspettative stritolano. La depressione è la prima minaccia per un giovane calciatore”. Un giorno Martin torna nel suo appartamento, mette su un disco di David Bowie e si taglia le vene. Lo salva la donna delle pulizie che lo trova per caso in un bagno di sangue.
Il calcio è un reality a livello mondiale e come in ogni reality ci sono protagonisti che mostrano più o meno apertamente la loro personalità, le loro debolezze. Una depressione non è però funzionale a mantenere la facciata, pertanto deve essere mascherata il più possibile. Accade così che un campione come Gary Speed, all’epoca commissario tecnico del Galles, scuote il mondo del pallone una domenica mattina togliendosi la vita nella sua abitazione nel Chesire. Un gesto considerato come unica soluzione da chi soffre di depressione e che nella sua tragicità ha però spinto molti altri giocatori a richiedere una aiuto psicologico concreto. In Inghilterra è nato anche un servizio telefonico specifico ad accogliere richieste d’aiuto di questo tipo, dove giocatori ed ex giocatori possano trovare un antidoto al mal di vivere.
Per quanto ci possano essere cause comuni, l’insorgere di una depressione deve essere interpretata nella specificità del caso singolo, considerando la storia personale e le esperienze proprie del giocatore in questione. I segnali di un malessere simile possono variare dallo shopping compulsivo al ricorrere all’alcool, dal gioco d’azzardo alla forte crisi coniugale, il denominatore comune è il senso di solitudine per il quale non si vede via d’uscita.
Un ultimo doveroso esempio viene dall’attaccante Marco Bernacci, il quale abbandonò il Torino dopo appena una giornata di campionato. Si parlò, a denti stretti, di stato depressivo. Un anno dopo, Bernacci è tornato a giocare, nel Modena, e a segnare. Lui tra i due colori del pallone da calcio ha scelto il bianco e ce l’ha fatta.


Dott.ssa Ivana Siena

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