Doping e meccanismi mentali
Uno
sportivo è prima di tutto un uomo, porta dentro di sé un bagaglio di sentimenti
che si esprimono su un continuum che va dalla gioia alla rabbia, dalla
tristezza alla paura attraversando molteplici emozioni che incidono
profondamente sulle prestazioni sportive a cui egli è dedito. Aspettative e
incertezze personali accompagnano costantemente l’atleta dai primi momenti
della giornata, scortano gli allenamenti e guidano le gare. Uno sportivo
per professione mette in campo il tutto per tutto per dimostrare agli
spettatori il proprio valore, ma soprattutto per confermare a se stesso che è
possibile mantenere il livello raggiunto e conquistarne uno sempre più alto.
Lo sport
collettivo è un modo per rivendicare l’appartenenza ad un
gruppo sociale, per usufruire di un sostegno reciproco in quanto cantare in
coro permette di mimetizzare le proprie stonature, ma è anche un mezzo a
disposizione del singolo atleta per differenziarsi dalla massa. Negli sport
individuali, invece, i riflettori sono puntati sul campione sin
dal primo minuto della gara evidenziando meriti, défaillance, espressioni del
viso. Una scansione del corpo e degli stati d’animo del protagonista che possa
dare alla critica esterna argomenti per lodare il buon risultato finale e per
scatenare la caccia alle colpe di una eventuale prestazione penalizzante.
Lo
stimolo iniziale che spinge verso una carriera sportiva, rappresentato
fondamentalmente dal piacere e dal divertimento, corre il rischio di
trasformarsi in una sfida alle proprie capacità reali. L’ansia che ne
deriva è un termometro che segnala i livelli di autostima, fondamentale
elemento per il benessere individuale dell’atleta ed anche per quello di tutta
la rete sociale che lo circonda.
Ciò è
vero non solo per lo sport professionistico, ma
anche per quello dilettantistico ed amatoriale, che
vengono risucchiati da questa logica. L’essenza vera dello sport, fondata sulla
fatica quotidiana, sul metodo, sulla collaborazione, sulla conoscenza di se
stessi e sul rispetto degli avversari, lascia il passo alla sudditanza nei
confronti del “dio successo” che impone traguardi sempre più ardui da
raggiungere, che suddivide gli esseri umani in categorie, che innesca un senso
di alienazione nelle menti di coloro che manifestano una maggiore fragilità.
Il
rischio in situazioni simili di alimentare fenomeni patologici come il doping
è molto forte. Per definizione il doping è inteso come "l'uso di quelle sostanze o
metodologie che sono state proibite dalle competenti autorità
sportive a livello nazionale/internazionale, volto al raggiungimento o
mantenimento di una prestazione". L’atleta quindi fa uso di sostanze
dopanti nel momento in cui si trova nella condizione di rottura del rapporto
ottimale motivazione-mezzi-scopi, quando cioè spinto da agenti
esterni, ma ancor più dalla sua motivazione interna, si sente costretto a
mantenere le condizioni psico-fisiche estreme, sperimentate fino a quel
momento, e non trova in se stesso le risorse adatte a consentirgli di provare
autonomamente il senso di gratificazione di cui necessita.
La personalità
dello sportivo che ricorre all’uso di sostanze è una componente importantissima
per comprendere il fenomeno, infatti alcuni studi hanno dimostrato un basso
livello di autostima oltre a una tendenza a ricercare il consenso da parte del
gruppo dei pari in un’alta percentuale di sportivi caduti nella rete del
doping, caratteristiche tipiche di una personalità dipendente.
Si può
infatti parlare di doping e dipendenza, quest’ultima intesa come
condizionamento psicologico all’uso di sostanze tossiche fino a non poterne
fare a meno. Questo tipo di dipendenza è legata all’immagine corporea che
l’atleta si costruisce dal momento in cui comincia ad assumere sostanze. Il suo
corpo diventa vigoroso, ha una maggiore resa, è visivamente più definito, il
tutto correlato alla percezione che lui ha di determinate sensazioni corporee
(maggiore resistenza e potenza, riduzione del dolore) che sono condizioni
favorevoli al raggiungimento dei suoi scopi. Diventa chiaro come può risultare
poi difficile tornare ad una immagine corporea “ordinaria”.
È una dipendenza
psicologica, oltre che fisica, perché queste persone perdono di
vista l'importanza fondamentale dell'allenamento, il loro vero scopo diventa
quello di battere l'avversario ad ogni costo e con ogni mezzo. Il loro fine
quello di vivere per la gara, di trasformarla nell'unica ragione di riscatto
dalle proprie angosce della vita quotidiana.
Tra gli
"effetti positivi" - se così vogliamo definirli - si ha sicuramente
un innalzamento della fiducia in sé, della motivazione di gara, miglioramento
della memoria e della concentrazione, ma non sono da sottovalutare quelli
collaterali come l’incremento dell'aggressività e dell'irritabilità, sbalzi di
umore, insonnia, attacchi di panico, scatti d'ira incontrollata, depressione,
pensieri paranoici, comportamenti psicotici e vari disturbi della personalità.
Tutto questo incide sulla vita quotidiana, sulle relazioni familiari ed extra-familiari
provocando altri tipi di sofferenze.
La
lotta contro il doping è spesso concentrata sulla repressione del fenomeno,
un’azione necessaria quanto comunque poco efficace ad estirpare il problema. Il
punto nodale, infatti, sta nella giusta attivazione di una cultura dello sport
che promuova un'immagine dell'atleta caratterizzata dalla capacità di
utilizzare al meglio le sue risorse psico-fisiche, di una cultura
della “vittoria” che lasci trasparire l’essenza dell’atleta, la
sua individualità, la sua capacità di mettersi in discussione e anche l’umiltà
di imparare dalla sconfitta.
Dott.ssa Ivana Siena
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