“Le
aspettative degli adulti verso i giovani giocatori o atleti” è un tema importante che pone l’accento su ciò che si cela dietro
la scelta, più o meno deliberata, di intraprendere questo tipo di carriera
sportiva. Complici i sogni irrealizzati e le aspettative sempre più alte dei
genitori, i bambini di oggi sono, già dalle scuole elementari impegnati
in una media di tre attività extrascolastiche di cui almeno una ha a che fare
con il mondo dello sport.
I
maschietti dai cinque ai dodici anni devono essere bravi a scuola, devono
suonare la chitarra o il pianoforte, parlare le lingue e giocare bene a
calcio, spesso a prescindere dal reale talento espresso. Nasce così un vero e
proprio business di scuole calcio, alimentato dal fanatismo dei genitori, basti pensare
che quelle riconosciute dalla Federazione sono circa settemila ed alcune di
loro rappresentano un vivaio per squadre ufficiali. Questa frenetica corsa al
successo personale è mossa dallo stereotipo
della vita del calciatore, soldi, popolarità e potere in certi casi, che comunemente viene
intesa come il raggiungimento dell’autorealizzazione, apice della scala di
bisogni di ogni essere umano.
Dietro
questo modello ideale di vita si nasconde però un limite che è rappresentato dall’impossibilità
concreta di proseguire un corretto percorso di studi che permetta al ragazzo,
calcisticamente talentuoso, di sperimentarsi in altre abilità per cui è
portato. È da tener presente che la carriera calcistica è relativamente breve,
pertanto un calciatore di trentacinque anni, non necessariamente di serie A, si
ritrova a reinventare
la sua vita post carriera, investendo i soldi guadagnati in
attività che rilascino comunque un profitto, ma che non sempre portano ad una
reale soddisfazione personale, incorrendo così in rischi patologici gravi.
È
d’obbligo una distinzione tra i calciatori italiani e quelli di altri paesi del
mondo che hanno un sistema educativo diverso. È risaputo infatti che
determinati calciatori stranieri, provenienti da paesi più poveri dell’Italia,
imparano a giocare a calcio per strada, luogo d’elezione per riempire il tempo
laddove non è concesso loro il privilegio di accedere ad una istruzione
adeguata alla loro età. Senza contare che spesso il calcio diventa, in questi
casi, una valida alternativa a deviazioni verso strade delinquenziali ed
autodistruttive.
In
questi paesi non esiste il concetto di
Intelligenze Multiple (come
definito da Gardner) ad esempio, dove per intelligenza è inteso il potenziale
biologico che può essere più o meno sviluppato, a seconda delle opportunità
disponibili e delle decisioni personali prese dagli individui di una cultura
specifica. Così come definite dall’autore, le Intelligenze Multiple sono otto:
linguistica, logico-matematica, musicale, spaziale, corporeo-cinestesica,
interpersonale, intrapersonale e naturalista, tutti ambiti che vengono
riconosciuti e potenziati attraverso l’istruzione scolastica. Quella
corporeo-cinestesica, lo dice la parola stessa, ha a che fare con le abilità
motorie ed è pertanto quella maggiormente potenziata dai calciatori e dagli
atleti in generale. Le altre intelligenze restano nel patrimonio genetico più o
meno sviluppate.
Ove un
adolescente capace decida di proseguire nella carriera da calciatore, potrebbe
trovarsi a riporre in un angolo le altre abilità possedute e ad incentrare ogni
energia a livello corporeo, tralasciando la possibilità di professioni
alternative. Da ciò nasce il pregiudizio secondo cui i calciatori sono
ignoranti, ingrati, sbruffoni; molti di loro confermano le loro carenze
linguistiche durante le interviste post partita. Un pregiudizio negativo,
seppur fondato, va a travolgere tutta una categoria, lasciando invisibili i
personaggi che rappresentano l’eccezione alla regola. Un esempio è rappresentato da Guglielmo Stendardo,
31 anni, calciatore oggi dell’Atalanta, con un passato nella Lazio e prima
ancora nella Juventus. Proprio lui, come altri, ha scelto di impegnarsi negli
studi universitari in Giurisprudenza, e pochi mesi fa ha sollevato polemiche
con la sua richiesta di partecipare all’esame di abilitazione, penalizzando la
sua presenza in un incontro di Coppa Italia contro la Roma. L’allenatore
Colantuono lo ha punito, lasciando trapelare una conferma al pensiero secondo
cui “un professionista strapagato non ha l’impellenza di svolgere un’altra
professione”.
Oggi
esiste un progetto
ideato dall’Associazione Italiana Calciatori, “Ancora in carriera”,
già alla seconda edizione, con l’obiettivo di sviluppare le competenze
professionali dei calciatori a fine carriera per consentire loro un pieno
inserimento nel mondo del lavoro dentro e fuori dallo sport.
Spesso
il nutrire pregiudizi relativamente a determinate categorie di
persone porta a modificare il proprio comportamento sulla base delle
credenze socialmente condivise, con la conseguenza di creare condizioni tali
per cui si va a confermare tale pensiero, ad esempio scegliendo di sacrificare
gli studi in nome della carriera (una profezia auto avverante). Chissà
cosa ne penserebbe Pietro
Mennea, con le sue quattro lauree, le sue docenze
universitarie, i suoi venti libri scritti e il suo record mondiale imbattuto
per ben diciassette anni!
Dott.ssa Ivana Siena
Fonte: http://www.forzapescara.tv
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