La Famiglia di fronte alla morte
Il pensiero della morte occupa più di ogni altro
tema la mente dell’uomo suscitando in lui e in chi gli vive accanto reazioni
cariche di emotività.
Nella nostra società manca una cultura della fine
della vita che tenga conto del travaglio psicologico, spirituale, etico,
relazionale che la morte ed il lutto provocano negli individui, nonché del
significato che questi eventi assumono nella trasmissione del sapere familiare
e del patrimonio culturale, simbolico e morale che tiene in piedi il corpo
sociale e dà continuità al succedersi delle generazioni. La tendenza più
diffusa è quella di emarginare questi eventi, che certamente prospettano
problematiche complesse e difficili del vivere individuale e sociale.
La morte ed il lutto sono stati quasi completamente
sottratti ad ogni sacralità sia religiosa che laica: è subentrata una diffusa
intolleranza sociale all’espressione della tristezza e della disperazione, per
cui chi soffre della perdita di una persona significativa è molto meno
sostenuto ed assistito di quanto avveniva in passato.
Fino alla I° metà del secolo scorso si moriva in
casa e le persone amiche ed i parenti avevano il compito di accompagnare il
morente ed insieme di sostenere la famiglia. L’avvicinarsi della morte era un
evento sociale, sacro, trasformativo, religiosamente vissuto, che obbligava a
confrontarsi con inevitabilità della fine e del distacco, ma insieme consentiva
la condivisione e la trasmissione di valori e credenze: c’erano i messaggi da
affidare al morente e l’attesa dei suoi insegnamenti che costituivano il
passaggio di consegne alle generazioni successive, i riti comunitari che
avevano la funzione di nutrire simbolicamente e rafforzare i legami.
In tal modo bambini ed adulti familiarizzavano con
questi eventi temuti e minacciosi e la collettività e le famiglie, che in
questi riti comunitari e religiosi si riconoscevano, si sentivano confermate
dall’acquisizione di un patrimonio simbolico e relazionale da trasmettere alle
generazioni future.
Nella società attuale queste ritualità appaiono
sempre meno praticabili, sono consumati il più rapidamente possibile e vissuti
in genere in solitudine, come eventi strettamente individuali e privati.
Anche i riti funebri si svolgono spesso in un clima
di meccanica doverosità, di estraneità emotiva al contenuto spirituale del
rito.
Secondo M. Bowen la modalità di affrontare il rito
funebre al giorno d’oggi ha solo la funzione di negare la morte e di perpetuare
i legami emotivi irrisolti tra il morto ed i vivi.
Tra le consuetudini funerarie troviamo il portare
via il corpo dall’ospedale senza che la famiglia abbia un contatto con la
persona cara, il non voler vedere il corpo per ricordarlo com’era in vita,
evitare di portare i bambini ai funerali, riti strettamente privati per non
venire a contatto con l’emotività di altre persone.
Da ciò derivano una serie di eterne fantasie e di
immagini distorte e poco realistiche che non possono più essere corrette e
facilitano il permanere di quei legami emotivi irrisolti tra le persone che
influenzano le future relazioni e continueranno a dirigere il corso di
un’esistenza.
I funerali dovrebbero invece permettere di
“seppellire definitivamente il morto al momento della morte”.
Esso ha assolto la sua funzione principale quando
porta parenti ed amici al più intimo contatto funzionale possibile sia tra loro
che con la cruda realtà della morte in
questo momento così carico di emotività.
Chi conosce il dolore totale dei morenti, i
travagli dei familiari durante la malattia e “l’onda d’urto emotiva” che
per mesi o anni si trasmette e permane nel sistema familiare, sa quanto siano
utili la compartecipazione, la condivisione e la manifestazione dei sentimenti.
Il lutto naturalmente viene vissuto in tempi e modi
molto personali e differenti: Bowen a questo proposito parla di sistema
relazionale “chiuso” e “aperto”per descrivere la morte come un
fenomeno all’interno della famiglia.
Si dice sistema relazionale aperto quello in cui
l’individuo è libero di comunicare una notevole percentuale di pensieri,
sentimenti e fantasie interiori ad un altro, il quale può a sua volta
rispondere allo stesso modo.
Il sistema relazionale chiuso è invece un riflesso
emotivo automatico che protegge il sé dall’ansia presente nell’altra persona,
per quanto la maggior parte delle persone affermi di evitare gli argomenti
tabù per non turbare l’altro.
La morte è il principale argomento tabù, e per questo
molte persone muoiono sole, prigioniere dei propri pensieri che non riescono a
comunicare ad altri.
In questi casi vengono attivati almeno due
processi: uno è il processo intrapsichico che implica sempre un certo diniego
della morte, l’atro é il sistema relazionale chiuso.
Intorno alla persona affetta da male incurabile
ruotano almeno tre sistemi chiusi:
v Quello che agisce all’interno del paziente: il malato ha la consapevolezza della morte
incombente ma non la comunica a nessuno
v Quella che agisce all’interno della famiglia: essa riceve informazioni dal medico e vi aggiunge
altre notizie prese da fonti diverse amplificando, distorcendo e
reinterpretando il tutto durante le conversazioni che avvengono a casa. Si
arriva così a preparare il comunicato per il paziente in modo accuratamente
riveduto e corretto per evitargli una reazione ansiosa.
v Quella che agisce tra il personale medico e
sanitario: questo sistema è
influenzato dalla reattività emotiva alla famiglia e dalle relazioni che si
stabiliscono all’interno de personale stesso. Quando il medico è emotivo tende
ad usare un gergo che la famiglia non comprende, quando è ansioso tende a
parlare troppo ed ascoltare poco producendo messaggi vaghi che vengono
facilmente fraintesi dai familiari.
Molte energie vengono così impiegate nello sforzo
di negare la verità al malato e talvolta anche ad alcuni familiari.
La congiura del silenzio, a cui spesso aderisce
collusivamente anche il malato, impedisce di creare uno spazio affettivo di
riconoscimento, di consolazione reciproca e di condivisione per elaborare il
dolore della separazione. In genere i sentimenti personali vengono inibiti e
taciuti senza riconoscerne l’importanza, l’irrecuperabilità e le conseguenze
future.
In contrasto con l’idea che l’Io sia troppo fragile
in alcune situazioni, le persone gravemente malate sono riconoscenti quando si
offre loro l’opportunità di parlare apertamente della morte.
Naturalmente i familiari devono compiere un
percorso interiore simile a quello del malato per adattarsi alla perdita.
La parola transizione assume in questo caso
connotati particolari, in quanto è un passaggio che attiva soprattutto gli
aspetti simbolici.
Sappiamo che l’entrata di nuovi membri così come
l’uscita sono forti marcatori di passaggio perché mutano la struttura della
famiglia e le relazioni tra i membri.
Sia che la morte sia l’epilogo di un lungo percorso
di sofferenza o abbia i caratteri dell’evento improvviso, essa obbliga i
familiari a confrontarsi con l’inevitabilità del distacco e a procedere ad un
impegnativo lavoro di passaggio di consegne e di distribuzioni delle parti ed
eredità familiari.
Centro di Psicoterapia Familiare
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